Roma, 13 novembre. Ore
22.35. Ultime battute dell’amichevole Italia-Belgio. Una partita dura,
durissima, che ha riconsegnato una nazionale ridimensionata di fronte ad una ex
piccola in crescita. Lo Sport. I simboli. La sua forza. L’unione delle due
squadre, che interrompono il calcio giocato, per unirsi al minuto 39’ del primo
tempo e ricordare, insieme, le vittime dell’Heysel. Mai più un 29 maggio come
quelli. Mai più una minaccia hooligans. Mai più morti inermi. Lo sport che
unisce, lo sport che restituisce dignità a 39 morti ingiuste. Morti, avvenute
nel silenzio, stigmatizzate dai posteri, in alcuni casi anche strumentalizzate.
Morti appunto, su un terreno di gioco.
Lo stesso terreno, che,
pochi chilometri più giù, a Parigi, un’ora più tardi si trasforma nel luogo di
sicurezza e di salvezza di tutti: giocatori, staff, giornalisti, fotografi e
spettatori. Un Presidente evacuato, le granate che cadono, la conta dei morti
che sale. Prima 18. Poi 30. Poi 60 ostaggi. Riuniti in un ristorante, in una
sala concerti o per strada. Non c’è luogo sicuro, senti franare ogni certezza
sotto di te. Anche se adesso sei a letto, stanco e assisti all’edizione
straordinaria in tv. Attonito. Stranito. Durante l’amichevole Francia-
Germania. Un sorta di “tregua olimpica” violata. Sembra così assurdo. Un evento
sportivo sospeso, com’era giusto e doveroso che fosse.
Intanto le misure di
sicurezza si innalzano, si dimentica che lo Sport avrebbe potuto far riunire
quelle vittime in quel ristorante o aver fatto incontrare quella gente per
strada. Già, ancora lo Sport in un contesto di incertezza, di sospetto, di
inasprimento di quei sentimenti striscianti di intolleranza tipicamente
attuali. Tipicamente postumi da quel famoso 11 settembre. La paura che ci
pervade, la speranza che consola. Eppure il 2016 è alle porte. Rio 2016 è alle
porte. La Tregua Olimpica, quell’atto simbolico e così pieno di Olimpismo è già
stato violato.
Arrivano le prime
rivendicazioni, i primi sospetti. Occidente e Oriente. O meglio, Medio Oriente.
Lo stadio parigino pieno di spettatori sul rettangolo verde, tutti storditi,
increduli, mentre dalla regia passano al cronista questo dato: 100 ostaggi.
Sfido chiunque adesso, chiunque si dichiari e avverta forte nel suo intimo il
senso di unione, fratellanza e “pace” fra i prossimi tipica dello Sport a non
sentirsi scosso. A non sentirsi già messo in discussione, già pronto ad essere
l’attaccante iracheno Mahamood. Sì, proprio lui. Essere fin da subito quel
Mahamood in grado di mettere tutti d’accordo, anche solo per un giorno. Per
un’ora. Per un istante irrecuperabile di serenità. Per un goal.
E intanto le notizie
delle sparatorie su Parigi aumentano, si moltiplicano, sprezzanti dei rischi
per la vita umana. Lo Stato che deve fare lo Stato, proteggere i suoi
cittadini. Proteggerli da loro, dai terroristi. Volti travisati, immaginati,
stereotipati dal pregiudizio, identificati e svelati da 130 battute di un
tweet. Un mondo che si risveglia, prende coscienza dell’insicurezza, della
strada che c’è da percorrere. Una strada in salita, che ha la sua prima grande
occasione nel 2016. E chissà che ancora una volta lo Sport non riesca a creare
i ponti, là, dove i muri appaiono talmente tanto alti e robusti da non essere
sgretolati. Là, dove si inaspriscono i piani di sicurezza degli Stati, che si
trasformano in stati di polizia. Piani alfa, alfa uno, alfa due. In base alla
gravità. In fondo, in un angolo, ad attenderli lo Sport. Quello vero. Quello
interrotto dalle granate all’esterno dello Stade de France.
Sì, proprio il calcio,
ancora una volta suo malgrado protagonista di una pagina nera della nostra
umanità. Quella stessa umanità persa, da recuperare, da coltivare in una fase
di crisi di valori ai più senza precedenti, senza soluzioni. Lo Sport,
interrotto, che se ne sta lì, in un angolo, all’entrata del tunnel degli
spogliatoi, davanti ai minischermi e trema, si dispera. In quel momento è
l’immagine del mondo che domani, in un modo o nell’altro, dovrà ripartire. Non
si sa come. Non con quale spirito. Non con quali pregiudizi. Quali colori di
pelle, quali abbigliamenti, quali religioni, quali usanze saranno da domani “messe
al bando” dalla fabbrica dell’intolleranza. La notte di Parigi, non è la notte
d’Europa, ma una notte come tante, in cui l’umanità riscopre la sua attuale
debolezza. La sua incapacità di svilupparsi di pari passo al suo progresso
tecnologico. La notte di Parigi, il gelo nel sangue all’accavallarsi delle
notizie, delle agenzie di stampa, che gridano al “totale caos” e lì, sullo
sfondo, quel prossimo avvicendamento tra il 2015 e il 2016. Un risveglio europeo non ancora avvenuto, le
capitali in allerta, vestite da Gotham City. Non sembra vero tutto ciò,
sembrava così lontano uno scenario di guerra dalle nostre terre che mai avremmo
potuto pensare e sentirci così interessati da vicino. “Come nei film”, come in
Medio Oriente, come in Africa, come negli Stati Uniti. Ma non in Europa, non da
noi. Non nella terra dove è nata e si è sviluppata la Democrazia. Quella vera,
non quella esportata in scenari di guerra e imposta senza confronti alle
popolazioni da decenni sotto leggi dittatoriali o addirittura tribali.
Quindi le Olimpiadi, una
Tregua già violata, atleti e delegazioni più in generale, che, mai come in
questa fase, dovranno essere messaggeri di pace. Una pace reale, magari anche momentanea,
che di per sé appare utopica già nel suo piccolo, nel suo apparire
irrecuperabile. Messaggeri di una pace, che si fa piccola e umana al tempo
stesso. La notte di Parigi e l’alba di Rio. Nel mezzo la Storia di una guerra
da scongiurare con tutti i mezzi, quindi anche grazie allo Sport.
Nonostante i pregiudizi,
nonostante gli eventi che potranno seguire, nonostante la geopolitica e i
rapporti di forza tra i singoli Stati, che, ahimè, rischiano di riscoprirsi
troppo come singole nazioni e poco come un’unica comunità.
Pierpaolo
Volpe
studente MBA- diritto e management
dello Sport