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giovedì 21 maggio 2015

Islam Radicale, valori occidentali, finanza e nuovi assetti geopolitici

Lo scorso 28 Aprile, nella Sala della Biblioteca della Link Campus Univesity, si è svolto il seminario di studi “Islam Radicale, valori occidentali, finanza e nuovi assetti geopolitici”, organizzato in collaborazione con ISGAP (Institute for the study of global antisemitism and policy) e CEMAS (Centro di ricerca dell’Università Sapienza di Roma “Cooperazione con l’Eurasia, Mediterraneo e Africa Sub-sahariana”). All’evento, moderato da Gabriele Natalizia (Link Campus University), hanno partecipato Vincenzo Scotti (Link Campus University), Robert Hassan (ISGAP) e Gianluca Ansalone (Link Campus University).

In un mondo sempre più sconvolto dalla minaccia del radicalismo islamico, gli illustri relatori,                              hanno esaminato i fattori culturali, economici e sociali del fenomeno. Dopo la breve introduzione del professor Natalizia, che ci ha ricordato come già venti anni fa Samuel Huntington, nel suo famoso articolo comparso sul Foreign Affairs (The Clash of Civilizations?), affermava che i momenti unipolari nel sistema internazionale in realtà durino poco, perché ad ogni concentrazione di potere a livello globale, una nuova potenza cercherà di controbilanciare tale dominio opponendosi alla potenza egemone. La tesi di Huntington si contrapponeva a quella di Francis Fukuyama, quest’ultimo noto per aver considerato la fine della storia, in un mondo che si stava lentamente appiattendo verso valori occidentali, senza un’alternativa, con il dominio incontrastato degli Usa. Ma nuove forze “controbilancianti”, per Huntington sarebbero presto emerse, e se non a livello globale, per lo meno a livello regionale. Nuove forze con forme politiche influenzate dalla religione. Uno scontro di civiltà per l’appunto, con una forma “politicizzata” dell’islam, destinata a scontrarsi con l’altro modello, quello occidentale, basato sulla democrazia.

Il presidente della Link Campus University, Vincenzo Scotti, ha sottolineato come il problema sia stato la sopravvalutazione delle primavere arabe, che anziché essere la soluzione alle crisi dei regimi nei paesi del Grande Medio Oriente, sono diventate rapidamente fattore d’instabilità per l’intera regione con conseguenze che ancora oggi sono sotto gli occhi di tutti. L’errore di valutazione più grande dell’occidente, è stato pensare che dopo anni di regime, la situazione potesse tornare stabile nel giro di pochi mesi senza appoggio esterno, e che le elezioni democratiche potessero definitivamente risolvere le secolari contrapposizioni tra i vari gruppi di potere all’interno di ogni singolo Stato.

Il direttore italiano dell’ ISGAP (Institute for the study of global antisemitism and policy), Robert Hassan, fa notare come l’antisemitismo, storicamente, anticipi i tentativi di globalizzazione. Sviluppando il suo pensiero, Hassan, definisce l’insieme di complessità e conflitti una relazione tra due modalità: globalizzazione ed ecumene. Due scelte alternative, una sconfigge l’altra. La globalizzazione è scelta e ricerca di un comportamento uniforme. L’ecumene invece è la casa comune. Una casa che tuttavia è accessibile solo a coloro che si richiamano a determinati valori, dove si decide chi fare entrare e chi lasciare fuori. Ogni azione rivolta a risolvere un conflitto, comporta sempre una scelta tra globalizzazione ed ecumene. Nella globalizzazione, i conflitti vengono risolti uniformando le soluzioni da essa perseguite su tutto il globo, anche ricorrendo se necessario alla violenza. L’Islam radicale in particolare, è un nuovo tentativo di globalizzazione. Nell’ecumene invece, le soluzioni sono differenziate di volta in volta. L’ecumene è una scelta. La scelta con chi determinare una coalizione, per sconfiggere chi ha obbiettivi di globalizzazione. La globalizzazione dal punto di vista dell’informazione e della comunicazione, richiede una grande potenza tecnologica, l’ecumene invece richiede capacità di analisi. Per entrambi è indispensabile la conoscenza degli attori internazionali. Nell’ecumene i risultati sono incerti, variabili e temporanei. Per riassumere, la scelta di politiche nei sistemi complessi, possono essere scelte di compressione per ottenere un più ampio consenso, oppure scelte di coalizione, basate sulla qualità degli interessi che sono contrari alla visione globale. Quindi, l’obbiettivo della coalizione è a tempo, perché formata da diversi soggetti che hanno come unico nemico, chi cerca di imporre la propria visione globale.

Il professor Gianluca Ansalone, inizia il suo intervento interrogandosi sul perché l’occidente sia oggi più spaventato in un mondo che è paradossalmente più sicuro, longevo e prospero. A suo avviso, lo siamo perché mai prima d’ora c’era stata nella storia dell’umanità, una serie di cambiamenti nel sistema internazionale così importanti, concentrati in un arco di tempo relativamente breve.
Nel 2001 l’attacco alle Torri Gemelle, evento che smentisce palesemente la tesi di Fukuyama. Dopo quel drammatico evento, l’occidente ha recuperato, oltre alla dimensione storica, anche la dimensione geografica. Quella della fine della geografia si è rivelata una semplice illusione, che ci eravamo autoimposti dopo la fine della guerra fredda. In un secolo, il numero degli Stati è infatti raddoppiato. Nella seconda parte del suo intervento, il professor Ansalone ricorda come la geopolitica non sia diversa dalle altre discipline scientifiche. La geopolitica, non è una semplice interpretazione di fatti, ma ha anch’essa le sue regole fisse. La regola più importante da ricordare, è che in geopolitica i vuoti non esistono, e vengono sistematicamente riempiti da qualcuno o da qualcosa. Il vuoto che si è creato al confine tra Siria, Giordania e Iraq, ad esempio, è stato riempito temporaneamente dallo Stato Islamico. Il successo dell’Isis, è dovuto alla sciagurata condotta di una parte della leadership americana. Si pensi ad esempio a Paul Bremer, che George W. Bush nominò come Inviato Presidenziale in Iraq. Bremer, estromise immediatamente dalla scena politica del paese, il Baath (Partito Arabo Socialista) e con esso tutti gli uomini più influenti che vi appartenevano, lasciandoli di fatto fuori dalla gestione piramidale del potere, oltre che senza un lavoro. Oggi, molti di questi uomini militano nell’Isis e hanno ruoli influenti all’interno del Califfato. Il professor Ansalone, nella parte conclusiva del suo intervento, ha inoltre ricordato come il principale nemico dell’Isis siano gli sciiti. Subito dopo vengono i miscredenti cristiani. Non troviamo quindi, nella propaganda dello Stato Islamico, alcun riferimento nei confronti di Israele. Tutti i conflitti a cui oggi noi stiamo assistendo, possono essere interpretati come una guerra per procura tra le due grandi sensibilità dell’Islam, rappresentate dall’Iran (sciiti) e dall’Arabia Saudita (salafiti).
di Piero De Luca

mercoledì 20 maggio 2015

Xenofobia e conflitti nel Sudafrica del post-apartheid

                                                                                                                 "We, the People of South Africa,
declare for all our country and the world to know:
that South Africa belongs to all who live in it"
Freedom Charter, 1955.

Lo scorso 14 aprile, la polizia sudafricana ha tratto un bilancio di sette morti a seguito della recente esplosione di violenza xenofoba che ha raggiunto il centro di Durban, mettendolo a ferro e a fuoco. Se questa città portuale del KwaZulu-Natal conta il numero di vittime più alto (ben cinque), nella stessa regione non è stata risparmiata neanche Pietermaritzburg, mentre Umlazi, KwaMashu e Isipingo sono stati teatro di attacchi particolarmente virulenti. La dinamica è ovunque la stessa: nella miseria delle township i migranti sono cacciati dalle loro abitazioni, le loro piccole attività commerciali saccheggiate e date alle fiamme. Le stime dei danni sono approssimative e gli sfollati si contano nell’ordine delle centinaia. Nessun dato è disponibile sugli stupri che pure si sono verificati.
Pochi giorni prima che la furia si scatenasse, Goodwill Zwelithini, che detiene la carica onorifica di re zulu, aveva pubblicamente richiesto ai migranti di abbandonare il paese. A fargli da eco era stata un’esternazione del tutto simile di Edward Zuma (figlio del presidente) che, senza indietreggiare, ha rincarato la dose quando ancora i disordini non erano del tutto cessati, dichiarando: «non smetterò di dire la verità […] Questa gente deve tornare alle proprie comunità» (City Press, 14/04/2015: http://www.citypress.co.za/news/foreigners-do-as-they-please-in-sa-edward-zuma/).
Ma chi è questa “gente” che dovrebbe tornare da dove viene? Sono africani neri e sono poveri come i perpetratori materiali delle violenze. Ma, a differenza di questi ultimi, sono amakwerekwere: quelli che parlano una lingua incomprensibile ­– i barbari, se volessimo trovare un’analogia con l’etimologia di questa parola italiana.
Gli amakwerekwere incarnano tutti i mali delle township e, come capri espiatori, su di loro ricade la colpa della disoccupazione dilagante, dei salari da fame, della mancanza cronica di abitazioni, della criminalità diffusa, delle violenze sessuali, del propagarsi dell’HIV.
Ma gli amakwerekwere non sono tutti uguali. Secondo una graduatoria dell’indesiderabilità, gli zimbabwesi e i mozambicani sono peggiori dei migranti del Lesotho e dello Swaziland ma comunque migliori dei somali e degli etiopi.
Questa forma di xenofobia si connota per il fatto di contrapporre neri (sudafricani) poveri a neri (africani) poveri, ma soprattutto per il fatto che pare costituire un elemento di discontinuità rispetto al periodo dell’apartheid, quando i migranti erano integrati nelle township, prendendo parte attivamente alle lotte di liberazione, e i perseguitati in fuga dal regime razzista sudafricano erano accolti e sostenuti in altri paesi africani.
Eppure la storia passata di sofferenza e solidarietà non sembra andata del tutto perduta: il 16 aprile centinai di persone dalle township di Durban sono scese in strada per dichiarare il proprio sdegno contro gli attacchi xenofobi, mentre simili manifestazioni hanno avuto luogo anche a Johannesburg.
Nonostante ciò, si può a buon diritto parlare di una violenza xenofoba del post-apartheid; cioè, di una xenofobia che caratterizza la fase apertasi all’inizio degli anni Novanta e che prosegue – in una forma decisamente deteriore – “l’insularità”, quale peculiarità della storia moderna di questo paese: il Sudafrica come eccezione africana, la sua storica diversità che oggi pare tradursi in senso di estraneità rispetto al resto del continente.
In effetti la cruenza dei fatti appena trascorsi non è un unicum. Il post-appartheid è costellato da periodiche azioni di violenza collettiva contro i migranti, come quelle verificatesi solo a gennaio scorso a Soweto (Johannesburg), la più grande township del paese, sino ad arrivare più a ritroso nel tempo al progrom del 1994, noto con il nome di «buyelekhaya» («tornatevene a casa»).
Ma il bilancio più pesante spetta al maggio 2008 con almeno 62 morti, 35 mila sfollati, migliaia di persone in marcia verso le frontiere (26 mila solo quelle che attraversarono i confini con lo Zimbabwe). Nel maggio di sette anni fa tutto ebbe inizio ad Alexandra, township alle porte di Johannesburg, quando una folla fece irruzione in una fabbrica per aggredire i migranti zimbabwesi che vi avevano trovato un’abitazione di fortuna. Rapidamente le violenze si estesero alle altre township di Johannesburg, raggiungendo anche Soweto, ed espandendosi a tutta l’area dell’East Rand. Fu quindi il turno del KwaZulu-Natal e del Mpumalanga sino a che otto delle nove regioni sudafricane furono toccate dalle violenze. La stessa Città del Capo ne fu teatro.
L’esplosione del 2008 coincise con l’impennata dei prezzi dei generi alimentari, che segnò il principio della crisi mondiale. Questa, nel contesto sudafricano, si sommava alle attese frustrate di un nuovo ordine che prometteva, con la fine del regime, non solo di riconoscere i diritti formali ma di ridistribuire le immense ricchezze di un paese in forte crescita. Un crescita gravida di contraddizioni: secondo il Food Security Unit Network dell’Università di Città del Capo, attualmente più di 12 milioni di persone vivono in una situazione di “insicurezza alimentare”; vanno, cioè, a dormire affamati senza avere la certezza di poter soddisfare i proprio bisogni alimentari il giorno seguente. Un dato confermato dalle stime del Department of Agriculture, Forestries and Fisheries, che suona tanto più inquietante se si considera come il Sudafrica si contraddistingua su scala mondiale per le tecnologie agricole all’avanguardia e per il surplus della produzione alimentare. La crescita economica del post-apartheid ha, inoltre, attratto nuovi e più consistenti flussi migratori, con una popolazione migrante attualmente stimata intorno ai 5 milioni, su un numero di abitanti complessivi di circa 54 milioni di persone.
Tuttavia la coincidenza dei due fenomeni ­– sperequazione in contesto di crescita economica e aumento dei flussi migratori internazionali – non è di per sé sufficiente a spiegare odio e violenza contro i migranti. È solo, infatti, grazie ad un elemento ideologico che gli amakwerekwere sono stati trasformati in capri espiatori dei mali delle township.
Al riguardo, Achille Membe ha osservato come a suo avviso la differenza fra i progrom del 2008 e quello dello scorso aprile risiede proprio nell’emergere «dei rudimenti di un’ideologia»; cioè, di un discorso che incita e giustifica i progrom (Africa is A country, 16/04/2015: http://africasacountry.com/achille-mbembe-writes-about-xenophobic-south-africa/).  
In tale ottica il filosofo camerunense interpreta anche le nuove norme del 2014 in materia di immigrazione che apportano modifiche significative all’Immigration Act del 2002. La nuova legislazione sembrerebbe rendere più incerta la situazione dei migranti con permesso di soggiorno, sottoponendoli al rischio permanente di scivolare nell’irregolarità.
A ben vedere, tuttavia, la presenza di un discorso pubblico a carattere marcatamente ideologico sul fenomeno migratorio è già presente in una fase precedente rispetto a quella indicata da Mbembe. Questo pare emergere dall’indagine del Samp (South African Migration Project) che ha monitorato la stampa sudafricana fra il 2002 e il 2004. L’analisi dei dati ha in effetti mostrato come la copertura mediatica del fenomeno migratorio non fornisca adeguata informazione rispetto a un processo tanto complesso quanto diversificato. Ma non solo: la pubblicistica sull’argomento pare configurarsi nel suo insieme come una vera e propria campagna anti-immigrati, per l’insistenza di stereotipi negativi associati a categorie sociali indeterminate e imprecise.
È tuttavia vero che xenofobia e tribalismo sembrano, dalla crisi del 2008 in avanti, aver permeato sempre più in profondità anche il discorso politico. L’intensificarsi dell’uso strumentale del tema migratorio è andato di pari passo con l’emergere di una conflittualità radicale, diretta espressione delle contraddizioni dell’economia sudafricana.
Quello trascorso è stato in tal senso un vero e proprio anno caldo, con ondate di scioperi e manifestazioni che hanno interessato settori economici strategici con rivendicazioni mai così avanzate da parte dei lavoratori. Dal 23 gennaio 2014, dopo il fallimento delle trattative sindacali, hanno avuto inizio 5 mesi continuativi di scioperi per i minatori dell’industria estrattiva del platino.
Ad incrociare le braccia sono stati tra i 70 mila e gli 80 mila minatori che hanno bloccato il 40 per cento della produzione mondiale di platino, in un paese che detiene più dell’80 per cento delle riserve mondiali. Secondo lo Stats SA (Statistics South Africa) la produzione di questo minerale ha registrato, nei mesi dello sciopero, una caduta che non si era mai verificata negli ultimi 47 anni. A giugno i minatori sono riusciti a strappare un aumento salariale di mille rand mensili.
A luglio è stato poi il turno del settore metallurgico e siderurgico, anche in questo caso con richieste di migliori condizioni salariali (12 per cento d’aumento) e eliminazione del caporalato. Lo sciopero nazionale ha riguardato industrie di piccola, media e grande dimensione con più di 220 mila lavoratori coinvolti e forti ripercussioni sull’intera produzione manifatturiera. L’impatto maggiore si è avuto nella regione del Capo Orientale dove risiedono le più grandi industrie del settore, con adesioni significative anche nel Capo Occidentale, nel KwaZulu-Natal e nel Gauteng. Proteste si sono verificate anche alla Eskom, la compagnia elettrica statale, dove sono vietati gli scioperi in quanto fornitrice di “servizi essenziali”.
A guidare gli scioperi e le manifestazioni, che hanno avuto luogo a Johannesburg, Durban, East London, Port Elizabeth e Città del Capo, è stato il Numsa (National Union of Metalworkers of South Africa): il sindacato dei metalmeccanici che nel dicembre del 2013 ha rifiutato di appoggiare, per le elezioni nazionali del maggio successivo, l’African National Congress, partito che è alla guida del paese dalla fine del regime.
La rottura del Numsa (poi espulso nel novembre 2014 dal Cosatu – la maggiore confederazione sindacale, legata all’Anc) rivela la crisi di credibilità dell’Anc un tempo guidato da Mandela.
A motivare questa crisi non sono solo gli scandali legati alla corruzione e l’approfondirsi delle contraddizioni socio-economiche nel post-apartheid. In effetti un vero e proprio spartiacque, che ha contribuito a incrinare il legame fra lavoratori neri e Anc, è la data del 16 agosto 2012, quando la polizia ha sparato su una folla di minatori in sciopero a Marikana, uccidendone 34.
Il massacro di Marikana è il più noto episodio di violenza agita dalla forza pubblica contro civili nel post-apartheid, con un bilancio di morte che non si registrava dal 1960. Ma non è l’unico: va ad esempio ricordata anche l’uccisione di 4 persone a Mothuland il 13 gennaio 2014 durante una manifestazione contro la cronica mancanza d’acqua. Una questione particolarmente grave in tutta la municipalità del Madibeng (A ovest di Pretoria), dovuta allo sfruttamento intensivo delle risorse idriche da parte delle miniere e alla cattiva manutenzione delle reti da parte degli amministratori politici locali.
La violenza contro i migranti si radica dunque nel contesto fortemente dinamico e in trasformazione del post-apartheid, connotato da crescente disuguaglianza, radicalizzazione della conflittualità sociale e crisi di credibilità della classe dirigente. I fatti di metà aprile interrogano, in tal senso, sul futuro della rainbow nation, profetizzata da Desmond Tutu: il post-apartheid manterrà la sua promessa di emancipazione per l’Africa intera o scivolerà nella spirale dell’odio?

Generazione Proteo: una corsa a ostacoli. La ricetta per vincere? Velocità, agilità e ritmo

Nell’immaginario collettivo l’atletica leggera – disciplina simbolo del panorama olimpico al punto da essere comunemente definita “la Regina dei Giochi” – viene normalmente associata all’immagine dello sprinter, e il concetto stesso di “fuoriclasse” tende a riferirsi, in primis, a chi trionfa nella velocità: da Carl Lewis a Linford Christie, da Jesse Owens a Usain Bolt, passando per Fanny Blanckers-Koen e Florence Griffith-Joyner.
Eppure l’atletica leggera è una disciplina composta da tante e diverse specialità – dai lanci ai salti, dal fondo alle prove multiple –, ciascuna delle quali richiede all’atleta di possedere qualità diverse (ma non meno importanti) rispetto a quanto richiesto ai velocisti puri. Per chi si cimenta nella corsa a ostacoli, in particolare, tre sono i talenti necessari: certamente velocità, perché le gare a ostacoli si svolgono normalmente su distanze brevi, ma anche agilità per superare le barriere e ritmo, indispensabile a non perdere il filo della corsa.
Velocità, agilità e ritmo sono anche le principali caratteristiche che – stando a quanto emerge dal 3° Rapporto Generazione Proteo, presentato questa mattina presso l’Auditorium della Link Campus University, l’Ateneo che, ormai da tre anni, realizza questa ricerca – devono oggi possedere i giovani italiani: la prima, infatti, consente loro di tenere il passo rispetto alle esigenze di una società che, sotto la spinta di vari e diversi agenti sociali (i media in primis) viaggia a una velocità sconosciuta a qualsiasi altra epoca. La seconda è strettamente necessaria e funzionale a tale corsa, poiché consente ai giovani di districarsi tra le numerose barriere – politiche, economiche, sociali – che si frappongono sul loro cammino. La terza, infine, rappresenta il perfetto intreccio delle prime due: in ogni corsa a ostacoli che si rispetti, velocità e agilità rischiano infatti di risultare vane, per non dire fini a se stesse se gli ostacoli si superano dopo aver precedentemente indietreggiato al loro cospetto.
Ma chi sono i giovani, oggi? Quali sono le paure e le aspirazioni, i valori e le abitudini di chi oggi rappresenta la generazione di domani? Rispondere a questa domanda non è affatto semplice perché, come ebbe ad affermare Nicola Ferrigni (direttore della ricerca) già in occasione della presentazione del 1° Rapporto, l’universo giovanile italiano si caratterizza per il suo essere incredibilmente “proteiforme”, ovvero «difficile da inquadrare in schemi predefiniti, inafferrabile». Ciononostante, dalla ricerca emergono alcune significative indicazioni che, da una parte, confermano quanto già emerso nelle precedenti edizioni (ed è significativo notare come tale conferma coincida con un allargamento sensibile del campione, quadruplicato rispetto alla precedente edizione), dall’altra parte introducono degli interessanti elementi di novità, segnando così il passaggio da quella generazione di «talenti e solisti fuoriclasse» emersa dal 2° Rapporto alla generazione attuale, fatta di «atleti e corridori, quasi inconsapevoli, di una competizione agonistica quotidiana».
È proprio lungo queste due direttrici che, questa mattina, si è sviluppata la presentazione del Rapporto: un momento di incontro e di dialogo tra gli studenti delle scuole secondarie superiori che hanno partecipato alla ricerca (quella “Generazione Proteo” che dà anche il nome al relativo osservatorio, attivo presso la Link Campus University) e le Istituzioni, chiamate oggi più che mai a un rapporto di fattiva collaborazione con la società civile. In mezzo a loro l’università, ponte ideale tra la generazione di ieri e quella di domani, nonché passaggio obbligato, a detta dei giovani intervistati, per acquisire le competenze necessarie per garantirsi un lavoro stabile, gratificante e quanto più possibile rispondente alle proprie aspirazioni.
Scuola vs/con le Istituzioni, dunque. Dal primo ambito, rappresentato dalla professoressa Monica Nanetti, presidente del Comitato scientifico dell’Osservatorio Generazione Proteo, è venuto un preciso richiamo affinché il confronto tra scuola e università sia sempre meno episodico ed occasionale: è infatti necessario che i discorsi sui giovani siano il secondo step di un percorso la cui prima tappa consiste nell’ascolto degli stessi giovani, e rispetto a tale auspicio è fondamentale il coinvolgimento delle Istituzioni. Una risposta importante alle suggestioni formulate dalla prof.ssa Nanetti è venuta dal Sindaco di Roma Ignazio Marino. «I giovani devono prendersi la vita e seguire con la vita l’evoluzione del proprio pensiero», ha affermato il Sindaco in apertura del suo intervento, ricordando come le idee che ci formiamo in gioventù non sempre si mantengono inalterate nel corso degli anni, bensì crescono, si evolvono, talvolta mutano in funzione del contesto sociale e culturale in cui si declina la nostra vita. Nel corso di tale evoluzione, ha concluso il Sindaco, i giovani non devono tuttavia mai perdere di vista i valori della passione e del rispetto: valori fondamentali, a suo avviso, per la piena realizzazione di ogni individuo e nel contempo della società.
Gli interventi istituzionali sono stati seguiti da un intenso confronto, coordinato dalla giornalista Sky Giulia Mizzoni, sui temi dei valori e della religione, della politica e del lavoro, della sicurezza e dell’immigrazione, infine dei social media. Tra gli altri interventi, quelli di Carlo Maria Medaglia («La forza della normalità, della trasparenza, della serietà contribuisce a rimettere in moto l’energia che contraddistingue i nostri giovani»), Romano Benini («Oggi il riferimento, il modello dei giovani è Steve Jobs: è interessante ricordare che il riferimento di Jobs era Leonardo Da Vinci»), Don Emil («Sono i valori che determinano il nostro io»), Arturo Di Corinto («La sfiducia dei giovani nel futuro è dovuta alla sfiducia degli amministratori del passato»), Maurizio Zandri («Ai giovani servono competenza e organizzazione, studio e preparazione per affrontare il futuro che essi sognano»), Francesco Soro («I social network espongono al rischio isolamento, ma i rischi devono riconoscerli i ragazzi»), Marica Spalletta («I media sono nel contempo innovazione tecnologica e rivoluzione culturale. Per i giovani rappresentano  un’opportunità e non un rischio solo in presenza di un loro uso responsabile»), Pierluigi Matera («Il mondo è di voi giovani: siate come siete, noi ci adegueremo»).
Quelli appena richiamati sono, naturalmente, solo alcuni dei tanti e significativi spunti di riflessione emersi nell’arco di questa mattinata, e molti di loro ben si prestano a essere ulteriormente approfonditi. Tuttavia, c’è un passaggio che ci piace richiamare in conclusione, e che vuole essere anche un auspicio per il futuro. Riprendendo la metafora sportiva con cui abbiamo iniziato questa nostra breve sintesi, la storia dello sport ci insegna che normalmente si diventa fuoriclasse quando si gareggia con successo in discipline particolarmente simboliche. Tuttavia, si può diventare fuoriclasse anche in specialità agonistiche diverse dalla velocità pura: se così non fosse, nel libro d’oro dell’atletica non figurerebbero i nomi di atleti quali l’astista Sergei Bubka, il lanciatore Al Oerter o, per l’appunto, l’ostacolista Edwin Moses.
Tutto questo a patto di avere la possibilità di scoprire prima e mettere a frutto poi il proprio talento, di «realizzarsi e autorealizzarsi», come ha rimarcato Ferrigni durante la presentazione. Perché ciò avvenga, è necessario che i vari e diversi talenti non vengano seppelliti, nella paura di andare persi, o peggio ancora indirizzati verso un’omologazione che soffoca le eccellenze. Al contrario ciò che serve è un investimento – certamente economico, ma prima ancora sociale e culturale – sulle giovani generazioni, per comprenderne desideri e aspettative, paure e preoccupazioni. Questo investimento, ha affermato Vincenzo Scotti, presidente della Link Campus University nel suo saluto introduttivo, è funzionale e indispensabile a orientare quelle riforme finalizzate a porre i giovani nelle condizioni di affrontare le sfide del grande cambiamento che sta avvenendo a livello globale. «Le riforme sono per le generazioni future, ma bisogna conoscere queste generazioni prima di avviare il percorso di riforma», ha concluso Scotti, rimarcando come il contributo dell’Osservatorio Generazione Proteo sia tanto più importante poiché esso rappresenta «un’occasione permanente di discussione sui temi ufficiali». Appuntamento dunque al prossimo anno, per scoprire se gli ostacoli saranno venuti meno, oppure se essi si saranno trasformati in siepi ancor più difficili da valicare.

venerdì 15 maggio 2015

Da Gianni Morandi a Matteo Salvini. La Rete come strumento di mobilitazione sociale

Ormai da parecchi anni, in Italia e nel mondo, si discute delle nuove frontiere che i media digitali rappresentano per i tradizionali modelli giornalistici, e in particolare della capacità del web di farsi luogo del dare, del fare e del partecipare informazione. L’ennesima tragedia del mare – che si è consumata nello specchio d’acqua che separa la Sicilia dalle coste nord-africane nella notte tra sabato e domenica e che ha causato quasi mille vittime – per molti versi conferma questa tendenza, soprattutto quando la riflessione si focalizza sulla terza prospettiva: la Rete, cioè, come spazio nel quale si condividono delle idee che poi diventano essere stesse fonte di informazione per i media giornalistici e, di conseguenza, per il pubblico.
L’esempio a nostro avviso più emblematico di questa tendenza è rappresentato da quello che potremmo definire come “il caso Gianni Morandi”. Due giorni dopo il naufragio, il popolare cantante ha infatti postato sul proprio profilo Facebook due diverse immagini, accompagnate da una propria, personale riflessione. La prima fotografia, in particolare, mostra una moderna “carretta del mare”, con migliaia di migranti ammassati l’uno accanto all’altro; la seconda rivela una scena del tutto simile, anche se i colori ingialliti dal tempo fanno immediatamente intuire che si tratta di un’immagine del passato. Sono le parole del cantante, nello specifico, a spiegare il senso di questo accostamento: «A proposito di migranti ed emigranti – scrive Morandi – non dobbiamo mai dimenticare che migliaia e migliaia di italiani, nel secolo scorso, sono partiti dalla loro Patria verso l’America, la Germania, l’Australia, il Canada… con la speranza di trovare lavoro, un futuro migliore per i propri figli, visto che nel loro Paese non riuscivano a ottenerlo, con le umiliazioni, le angherie, i soprusi e le violenze, che hanno dovuto sopportare! Non è passato poi così tanto tempo…».
Secondo Morandi, c’è dunque un filo rosso che lega i migranti di oggi ai migranti di ieri, e l’ospitalità, l’accoglienza che uomini e donne costretti a lasciare il loro Paese chiedono oggi a noi italiani è del tutto simile a quello che molti nostri compatrioti chiedevano a inizio Novecento ai Paesi dove erano costretti a emigrare. Premesso che il tema richiederebbe ben altro approfondimento, ci limitiamo qui a rimarcare come la delicatezza dell’argomento sia confermata anche dal fatto che, alcuni anni orsono, l’Ordine dei giornalisti ha dedicato uno specifico documento deontologico (la cosiddetta “Carta di Roma”) alle modalità di rappresentazione giornalistica dei migranti.
Il post di Gianni Morandi, visualizzato dai circa 1,2 milioni di fan che il cantante annovera tra i propri seguaci sul social network, diventa immediatamente oggetto di condivisione e di commento. Su questo secondo versante, è interessante sottolineare come le reazioni dei fan tendano a distinguersi: da una parte, infatti, c’è chi condivide tanto le ragioni del post quanto il senso della riflessione (i “like” sono più di 98mila), e si impegna in prima persona a rafforzare, amplificare, condividere il messaggio. Dall’altra parte, c’è anche un considerevole numero di fan che invece condanna apertamente la presa di posizione di Morandi, ora invitandolo al silenzio, ora arrivando a tacciarlo di ignoranza e stupidità.
La risposta del cantante non si fa attendere ed è affidata ancora una volta al popolare social network. Il nuovo post presenta tuttavia significative differenze rispetto al precedente, tanto nella sua struttura quanto nei toni utilizzati. Morandi esordisce infatti mostrando la sua sorpresa per «la quantità di messaggi al mio post di ieri. Sto continuando a leggere ma penso sia impossibile arrivare in fondo… 14mila messaggi!»: Ancora una volta, la Rete viene dunque percepita come un mezzo in grado di creare delle comunità che si riuniscono attorno a un tema di discussione: una sorta di agorà 2.0 dove, tuttavia, le posizioni possono differire e non sempre i toni restare nei limiti della convivenza civile. Ed è proprio su questo secondo aspetto che si focalizza il cantante nel prosieguo del post, allorquando afferma che «non mi aspettavo che più della metà di questi messaggi facesse emergere il nostro egoismo, la nostra paura del diverso e anche il nostro razzismo. A parte gli insulti, che sono ormai un’abitudine sulla Rete, frasi come “andrei io a bombardare i barconi” o “sono tutti delinquenti e stupratori” oppure “vengono qui solo per farsi mantenere”, mi hanno lasciato senza parole…». La chiosa finale sintetizza stupore, incredulità e nel contempo una forte dose di amarezza: «Magari qualcuno di questi messaggeri, ha famiglia, figli e la domenica va anche a messa. Certamente non ascolta però, le parole di Papa Francesco…».
Ancora una volta, il post del cantante riceve un consistente numero di “like”, svariati commenti e altrettante condivisioni, e contestualmente altrettante critiche. Tra queste ultime, la più “notiziata” dai news media è certamente quella del segretario della Lega Nord Matteo Salvini il quale, attraverso lo stesso social network, dapprima stigmatizza le parole di Morandi («Se Gianni Morandi è così attento alle esigenze degli immigrati, visto che non gli mancano soldi e case dia il buon esempio: accolga, ospiti, mantenga e paghi di tasca sua!»), poi conclude con una nota polemica a metà strada tra l’ironia, il sarcasmo e la satira («Canta che ti passa…»). Anche in questo caso, il popolo della Rete si mobilita: circa 45mila “like”, 5mila commenti, 3mila condivisioni, a conferma del fatto che, sul tema immigrazione, le posizioni tendono spesso a diversificarsi, sovente a contrapporsi, talvolta addirittura ad assestarsi su sponde diametralmente opposte e inconciliabili.
Fin qui, il dibattito emerso in Rete. E i news media mainstrem? Quale spazio essi danno alla notizia di questa ennesima tragedia del mare e all’ampio dibattito che ne è seguito? Con riferimento al primo aspetto, non vi è dubbio che vi sia stata una copertura assai approfondita dell’accaduto, e razionalmente non poteva accadere diversamente, poiché una simile notizia rispetta così tanti valori notizia (vicinanza, novità, dimensioni, drammaticità, human interest, ecc.) da non poter essere trascurata da nessun medium giornalistico. È con riferimento al secondo aspetto, tuttavia, che emergono le considerazioni più interessanti. L’iniziativa di Gianni Morandi trova infatti ampia copertura sui news media, tanto in quelli più tradizionalmente mainstream quanto in quel vasto e variegato universo di testate che si muove sulla Rete. Questo segna il passaggio, a nostro avviso assai significativo, tra una Rete che nasce e si sviluppa come luogo del partecipare informazione a una Rete che, oggi più che mai, tende ad affermarsi come luogo del dare informazione.
In questo delicato passaggio, tuttavia, vengono alla luce tanto gli innumerevoli pregi del web (perché è indubbio che una notizia veicolata attraverso la Rete trovi uno spazio di notiziabilità che oggi nessun altro medium è in grado di garantire), quanto i suoi difetti. Difetti che appaiono evidenti se consideriamo che in Rete tendono sovente a essere superati quei limiti alla libera manifestazione del pensiero tradizionalmente riconducibili alle regole della convivenza civile.
Ma c’è un altro aspetto interessante che emerge dalla vicenda e che rappresenta l’ideale conclusione del nostro lavoro e il ponte per futuri approfondimenti. Tutte le indagini che vengono periodicamente condotte sul pubblico dei media (da ultimo, il 12° Rapporto Censis/Ucsi sulla comunicazione), mostrano come la Rete sia la principale fonte di informazione per i giovani: è sul web infatti che i giovani italiani si informano, ovvero si formano quell’opinione cosciente, e alla bisogna critica, che poi si tradurrà in precisi comportamenti politici e sociali. Altrettante ricerche – a cominciare dal Rapporto Generazione Proteo, realizzato dalla Link Campus University e arrivato quest’anno alla sua terza edizione – sottolineano come i giovani italiani abbiamo una percezione molto diversificata dei fenomeni migratori: appena il 4% degli intervistati mostra infatti paura o disprezzo nei confronti degli immigrati, eppure 8 ragazzi su 10 ritengono che in Italia ci siano più immigrati di quanti il Paese possa ospitarne.
Se proviamo a incrociare questi due dati, appare evidente che l’apporto, fondamentale e irrinunciabile, che la Rete può e deve garantire quando vengono affrontati temi così centrali per la convivenza civile e, ancor più, per la costruzione della società del domani. A patto, tuttavia, di un’informazione (data, fatta o partecipata) che contribuisca a creare una cultura dell’altro e non del diverso. Distinzione che i giovani italiani già percepiscono e in molti casi hanno già fatto propria se – come sostiene Nicola Ferrigni, direttore dell’Osservatorio Generazione Proteo, commentando i dati che emergono dalla ricerca – per la maggioranza dei ragazzi intervistati «l’immigrato non è un diverso, quanto piuttosto un cittadino nato in un altro Paese o al limite una persona bisognosa di aiuto».

martedì 5 maggio 2015

Gioielli Dop, il primo brand di FoodJewelry “preparato” a mano in Italia

Gioielli Dop nasce da un’idea di Giovani Gioiellieri d’Italia, la prima associazione indipendente dedicata alla nuova generazione di artigiani della gioielleria made in Italy. L’associazione è nata da un’idea di Giorgio Isabella e Filippo Capitanio, ex studenti Link Campus University.
In vista dell’importante appuntamento di EXPO 2015, Giovani Gioiellieri d’Italia ha inteso contribuire alla valorizzazione e promozione del patrimonio alimentare e culturale italiano presentando in maniera del tutto originale le 3B del Made in Italy: il Bello, il Buono e il Ben fatto.
Il Bello della cultura e della tradizione italiana, il Buono dei prodotti tipici locali, il Ben fatto dei gioielli in argento e smalti interamente realizzati a mano.
Le collezioni di bracciali componibili di Gioielli Dop prendono ispirazione dai colori di Positano, dai sapori  della tradizione alimentare mediterranea, dall’alta pasticceria siciliana, dalla cultura magnogreca della costa jonica calabrese. Accanto alle prelibatezze locali, dalla pizza alla sfogliatella, dal fico d’india alla cassata, passando per la burrata e le orecchiette, i  bracciali sono il fil rouge di un Grand Tour italiano: i trulli di Alberobello, la maschera di Pulcinella, la colonna di Capo Colonna. Colori, Sapori e Cultura da indossare.
L’originalità di Gioielli Dop prosegue nelle scelte commerciali: una special selection della collezione di bracciali regionali si potrà acquistare in esclusiva online, per 30 giorni, sulla piattaforma di crowdfunding più cool, Indiegogo: http://igg.me/at/gioiellidop
Il lancio ufficiale il 9 maggio 2015 nella cornice di OroArezzo, un appuntamento irrinunciabile, inserito dal Governo Italiano nel piano straordinario perla promozione del Made in Italy, dove Gioielli Dop si presenterà con un format decisamente originale e svelerà l’intero catalogo regionale, completo di bracciali, orecchini, collane e charms, oltre ad una limited edition creata per Expo 2015. La collezione Primavera Estate di Gioielli Dop sarà quindi in vendita nelle migliori gioiellerie delle più note località turistiche italiane: Capri, Porto Cervo, Taormina, Roma, Siena, Pisa, Rimini, Venezia, Verona, Milano, Lago di Garda, Torino, Genova e in selezionati fashion mall internazionali.