Trois mots pour les morts et les vivants, questo il titolo della breve riflessione che il filosofo Etienne Balibar, autore del volume Violence et Civilté (Galilée, 2010), scriveva a pochi giorni dall’attacco alla redazione di Charlie Hebdo (Liberation,
10-11 Janvier 2015). Tre parole che intendevano richiamare gli
intellettuali (francesi e non) al loro dovere non solo di prendere
parola nel momento del dolore e dello sconcerto collettivo, ma
sopratutto di esprimersi senza reticenze o calcoli. E in tal senso
intorno a tre temi – comunità, imprudenza, jihad – Balibar riteneva che
fosse necessario convogliare lo sforzo collettivo del pensiero critico.
Perché in effetti il dovere, che ricordava il filosofo francese, non
deriva da un qualche privilegio elitario, ma, al contrario, dalla
specifica funzione sociale degli intellettuali. Ed è proprio in questo
che risiede la stringente attualità del contributo di Balibar di 10 mesi
fa: per chi – senza reticenza o calcoli – si misura con quei temi non è
possibile evitare il rischio del paradosso e delle strettoie.
Se abbiamo, difatti, bisogno di comunità (per elaborare il lutto, per
riflettere e per proteggerci), il rischio è che questa si chiuda per
escludere, cedendo alla tentazione dello scontro di civiltà a cui
proprio i terroristi ci chiamano. E ancor più ambivalente è – come era
nel caso della linea editoriale di Charlie Hebdo –
l’imprudenza: perché l’imprudenza è il rifiuto radicale di entrare nella
logica del terrore; ma d’altro canto è anche indifferenza rispetto alle
conseguenze collettive delle nostre provocazioni. Se poi il tentativo è
quello di comprendere le implicazioni e le valenze attuali del jihad,
il rischio sta nel cedere alla tentazione della semplificazione. In
risposta alle riduttive e scellerate argomentazioni degli islamofobi, si
è tentati di rispondere con un’altra riduzione: quella che,
evidenziando solo l’aspetto pretestuoso e strumentale della dimensione
religiosa del terrore jihadista, scoraggia una riflessione teologica
interna all’islam che possa, agli occhi dei credenti, recidere gli
ancoramenti coranici del jihadismo.
Si cammina, dunque, su un filo di lana che, dopo le stragi di Parigi del 13 novembre, pare sul punto di rompersi. In effetti da Charlie Hebdo
al Bataclan, non è scorso solo altro sangue (e non solo a Parigi), ma è
anche cambiato radicalmente lo scenario. Rispetto alla strage di
gennaio, gli attacchi di novembre hanno realizzato un salto
organizzativo dell’Isis, che adombra una vera e propria strategia di
guerra sul fronte occidentale. Ma non basta: il filo si tende
pericolosamente sotto i nostri piedi non solo sul tema del jihad ma
anche su quello della comunità e dell’imprudenza. In effetti la
proclamazione dello stato d’emergenza in Francia ha segnato anch’essa
uno spartiacque. François Hollande è ricorso a uno dei dispositivi
giuridici più controversi e dibattuti dalla fine della quarta Repubblica
a oggi, sostenendo soprattutto la necessità di una revisione
costituzionale che renda possibile una maggiore durata temporale per lo
stato d’eccezione.
Questa possibile modifica non riguarda affatto un aspetto meramente
tecnico ma un nodo nevralgico degli equilibri democratici della
Repubblica. A dimostrarlo è la storia stessa della legge francese sullo
stato d’emergenza che si intreccia strettamente con quella coloniale:
approvata nel 1955 per far fronte all’insurrezione algerina, fu
successivamente applicata nel 1958 e nel 1961 (sempre nella temperie
della guerra d’Algeria), per poi essere riattivata nel 1985 in occasione
della sollevazione indipendentista in Nuova Caledonia e, per ultimo,
nel 2005 durante le rivolte delle banlieues. In tutte queste occasioni
il ricorso a tale dispositivo ha sempre implicato riconoscere la
necessità, per la difesa della stessa Repubblica, di istaurare
temporaneamente uno regime d’eccezione che sospendesse alcune delle
libertà fondamentali garantite dalla costituzione. Infatti il testo
della legge, fra le altre cose, dà facoltà alle autorità civili di
imporre la chiusura di luoghi pubblici, di decretare il divieto di
riunione e assembramento, e di esercitare controllo sulle pubblicazioni,
i mezzi di informazione così come sulle proiezioni cinematografiche e
le rappresentazioni teatrali. Inoltre, lo stato d’emergenza priva il
potere giudiziario di alcune sue prerogative essenziali, attribuendo
all’esecutivo la decisione di svolgere perquisizioni e riconoscendo la
possibilità di dichiarare competente la giustizia militare.
A uno sguardo superficiale tale dispositivo giuridico sembra duplicare
inutilmente lo stato d’assedio, previsto dall’articolo 36 della
costituzione. In effetti l’approvazione della legge nel 1955 rispondeva
all’esigenza di istaurare uno stato d’eccezione senza dover decretare lo
stato d’assedio che appariva, nel contesto della situazione coloniale,
politicamente inopportuno: implicava, infatti, riconoscere
un’organizzazione militare al nazionalismo algerino e, di conseguenza,
ammettere che l’Algeria fosse un territorio di guerra distaccato dalla
Francia, laddove invece si trattava di rinsaldare la continuità
amministrativa con il territorio metropolitano.
La legge del 1955 faceva, dunque, uscire da questo impasse politico
iscrivendo un nuovo stato d’eccezione nel diritto francese che fosse
applicabile a qualsiasi porzione del territorio nazionale. In questo
modo era possibile aggirare qualsiasi riferimento alla condizione
contingente dell’Algeria sebbene la sua prima applicazione riguardò
esclusivamente il territorio algerino.
Solo tre anni più tardi però, nel maggio 1958, lo stato d’emergenza fu
applicato, per due settimane, in quello metropolitano; un ricorso che
mostrava quanto la questione algerina avesse investito il cuore politico
stesso del paese: stavolta non erano i nazionalisti algerini a
rappresentare la minaccia ma i partigiani dell’Algeria francese dopo il
tentato putsch del 13 maggio ad Algeri.
Proprio la situazione algerina fu infatti la causa scatenante della
crisi della IV Repubblica, portando alla stesura di una nuova
costituzione che dava maggiori poteri al capo dello Stato. Sarà dunque
Charles De Gaulle, primo presidente della V Repubblica, a voler
riformare nel 1960 le procedure di applicazione della legge del 1955,
mantenendo però fra i due dispositivi giuridici una differenza
fondamentale: infatti lo stato d’emergenza, al contrario di quello di
assedio, accorda poteri straordinari all’esecutivo e non all’esercito.
Così che quando il 22 aprile dell’anno successivo Algeri si risvegliò
nelle mani dei militari, il consiglio dei ministri a Parigi decretò
immediatamente lo stato d’emergenza sul territorio militare per
difendere le istituzioni repubblicane. Si aprì allora la fase più lunga
che la Francia abbia mai conosciuto di regime d’eccezione che terminò
solo nel maggio del 1963, ben oltre la fine della guerra algerina (marzo
1962) e la proclamazione dell’indipendenza (luglio 1962).
Nel suo lungo e travagliato percorso storico, lo stato di emergenza ha
dunque dimostrato la sua duplice natura. Da un lato è chiaramente uno
strumento di repressione politica che può essere applicato
indiscriminatamente: dal 1958 al 1963 fu infatti applicato contro i
nazionalisti algerini come contro i partigiani dell’Algeria francese.
Dall’altro lato esso è anche uno strumento di difesa della Repubblica e
delle istituzioni democratiche, qualora queste siano minacciate da forze
eversive. Tuttavia, anche se si accetta il rischioso paradosso secondo
cui per difendere la libertà e necessario – in condizioni estreme –
sospenderla, si pone una questione dirimente: quando e in che modo
stabilire che le condizioni che giustificano lo stato d’eccezione sono
cessate?
La fase aperta nell’aprile del 1961 e chiusa solo nel 1963 mostra
infatti come un prolungato stato di eccezione trasformi quest’ultimo in
uno dei tanti strumenti del potere esecutivo, motivando dunque una sua
banalizzazione.
Ed è la questione che pare destinata a riaprirsi qualora Hollande dia
seguito alla riforma costituzionale da lui auspicata che consentirebbe
uno stato d’eccezione duraturo e compatibile con le condizioni di una
guerra contro il terrore jihadista.
Un Patriot Act alla francese?
«Una deputata di Las Vegas (Nevada),
Michele Fiore, ha pubblicato sulla sua pagina Facebook una cartolina di
auguri di Natale nella quale appare insieme alla sua famiglia. Tutti
posano con una maglietta rossa e con i calzini ai piedi. Un perfetto
stile natalizio, se non fosse per le armi impugnate dai protagonisti
dell’immagine, compreso uno dei bambini. “Tocca agli americani
proteggere l’America – scrive la politica – noi siamo solo una comune
famiglia americana. Con amore e libertà, Michele”». Da La Repubblica, 6
dicembre 2012
Forse finirà davvero così, come si
augura il post natalizio della deputata statunitense: ognuno di noi si
doterà di un’arma di qualche tipo e, se qualche terrorista ci
attaccherà, risponderemo subito, uccidendolo. O, ancora meglio, ce ne
andremo in giro per strada e, se noteremo un sospetto di terrorismo
islamista (che è sospetto lo decideremo noi!), gli spareremo
direttamente, evitando così potenziali attacchi.
Un’estremizzazione, naturalmente. O,
almeno, speriamo che lo sia. Resta comunque inquietate sapere che un
membro del Congresso abbia potuto immaginare questo tipo di auguri di
Natale.
A volte, gli Stati Uniti esagerano, si
sa. Non molti anni orsono, il Presidente Bush Jr., per prevenire il
terrorismo, firmò una legge che limitava la libertà dei cittadini; e che
apriva agli orrori di Guantanamo, di Abu Ghraib, delle extraordinary renditions, dei black sites,
della tortura legalizzata. Era il notorio Patriot Act, che permetteva
di interferire con la privacy controllando comunicazioni telefoniche e
telematiche, di accedere ad informazioni contenute, per esempio, nelle
cartelle cliniche e nei dati bancari, di prelevare impronte digitali
nelle biblioteche, di effettuare perquisizioni ripetute in casa (case di
musulmani e arabi?) senza mandato. Le cose andavano assai peggio per i
cittadini stranieri (musulmani e arabi?): se sospettati di terrorismo o
di attività che mettevano in pericolo la sicurezza degli USA, potevano
essere soggetti a detenzione a tempo indeterminato. Certo, si trattava
del 2001, l’anno dell’attentato alle Torri Gemelle. Certo, gli Stati
Uniti erano presi nella morsa del terrore. Ed il terrore acceca e può
ottundere le capacità razionali. Almeno, è comprensibile che questo
accada agli individui, mentre dai governanti ci aspetteremmo più sangue
freddo e la capacità di non cedere ad istinti vendicativi. E ancora di
più dovremmo aspettarcelo da governanti che sbandiero i valori e i
diritti occidentali; salvo poi non chiarire quali siano i valori e i
diritti occidentali in difesa dei quali dovremmo essere disposti a
rinunciare a libertà fondamentali, per entrare in uno stato d’eccezione i
cui contorni si dilatano e diventano sempre più imprecisi. Il Patriot
act è, difatti, tutt’ora in vigore ed è stato applicato ben oltre la
lotta al terrorismo.
Già dopo la strage di Charlie Hebdo,
non erano mancati, fra i politici francesi, i sostenitori di un Patriot
act “alla francese”. A proporlo non erano state le frange più estreme
dell’arco parlamentare d’oltralpe, ma uomini e donne di Stato come
Valérie Pécresse, membro del Consiglio di Stato, ex-consigliera di
Jacques Chirac e più volte ministra (dei Conti Pubblici e della Riforma
dello Stato, 2011-2012; dell’Università e della Ricerca, 2007-2011).
Per questo, dopo gli attacchi a Parigi
dello scorso mese, è necessario più che mai dibattere sulle implicazioni
degli stati di eccezione, senza eludere l’argomento più controverso: i
pericoli che, per la democrazia e i “valori occidentali”, derivano dalla
sospensione di libertà fondamentali. Al riguardo, il filosofo Jean
Baudrillard scriveva nel 2002: «L’atto repressivo percorre la stessa
spirale imprevedibile dell’atto terroristico, nessuno sa dove si
fermerà, né i rivolgimenti che ne seguiranno. (…) Ed è questo scatenarsi
incontrollabile della reversibilità che segna la vittoria del
terrorismo. Vittoria visibile (…) nella recessione del sistema di
valori, di tutta l’ideologia di libertà, di libera circolazione ecc.,
che faceva la fierezza del mondo occidentale, e di cui esso si valeva
per esercitare il suo dominio sul resto del mondo» (Lo spirito del terrorismo, Raffaello Cortina Editore 202, pp. 41-2).
Insomma, se per combattere il nemico cambiamo troppo noi stessi, abbiamo perso.