L’attentato firmato dallo Stato Islamico
alla moschea sciita di Sayyida Zeinab che è costato la vita a più di 70
persone, l’escalation di tensione tra Iran e Arabia Saudita e il
confronto tra Russia e Stati occidentali hanno costituito la cornice,
non proprio ideale, per la ripresa dei lavori della conferenza di pace
di Ginevra sulla Siria.
Il fattore “ambientale” non è stato
l’unico a gravare negativamente sul meeting ginevrino. La principale
criticità, infatti, è il gap tra i gruppi rappresentati alla conferenza e
i reali rapporti di forza sul campo. Tra i principali attori che
operano nel teatro di guerra è presente nella “capitale” elvetica della
diplomazia solo la rappresentanza del regime di Bashar al Assad. Se è
tautologica l’assenza di un rappresentante dello Stato Islamico, la cui
sconfitta almeno ufficialmente è il minimo comun denominatore di tutte
le delegazioni presenti, molto meno lo è quella della delegazione curda
delle Unità di Protezione Popolare. Il braccio armato del Partito
dell’Unione Democratica, infatti, ha dimostrato di essere l’unico attore
locale in grado di respingere le offensive delle milizie del Califfato.
La delegazione curda, che inizialmente aveva raggiunto la Svizzera, si è
ritirata lamentando di non essere stata ufficialmente invitata
dall’inviato speciale dell’ONU per la Siria Staffan de Mistura. La
presenza dei curdi siriani, d’altronde, è fortemente osteggiata dalla
Turchia, assolutamente contraria a offrire qualsiasi forma di
legittimazione internazionale a un attore che coltiva speranze
d’indipendenza sempre più concrete. Uno Stato curdo di Siria, del resto,
agirebbe da magnete anche per il Kurdistan turco, gettandolo in
subbuglio. Sempre tra gli assenti figura anche l’altro gruppo jihadista
di Jabhat al Nusra, che controlla alcune porzioni di territorio siriano
per conto di al Qaeda. Grazie al sostegno dell’Arabia Saudita è
presente, invece, l’Alto Comitato per il Negoziato (HNC) che raggruppa
trentadue sigle dell’opposizione considerata “moderata”, ma che al suo
interno comprende anche gruppi direttamente collegati alla galassia del
radicalismo islamico come Ahrar al Sham e Jaysh al Islam. L’HNC ha
lamentato l’assenza delle precondizioni che aveva posto per la sua
partecipazione ai colloqui, come la fine dei bombardamenti sui civili
compiuti dal regime siriano e quella dell’assedio di alcune città
controllate dai ribelli (a Madaya è in atto una vera crisi umanitaria),
nonché un sostegno da parte degli Stati Uniti contro le posizioni del
regime di Assad considerato troppo tiepido rispetto al supporto che
quest’ultimo gode da parte di Iran e Russia.
Le criticità che affliggono la
conferenza di Ginevra non si arrestano alle sue dinamiche, ma investono
anche gli obiettivi di fondo di medio termine dei suoi protagonisti, che
rimangono ancora nascosti dietro l’obiettivo comune della distruzione
dello Stato Islamico. Leggendo le notizie che giungono questi giorni
dalla Siria, in particolare quelle relative alle fratture religiose che
dilaniano il Paese e alla violenza che vi risulta connessa, è difficile
immaginare che i suoi confini tornino in futuro a ricalcare quelli
precedenti al 2011.
Ancor più difficile è prevedere gli
scenari futuri che scaturiranno dalle trattative a Ginevra e dalla loro
combinazione con le operazioni militari. Verosimile, anche se viene
considerata quasi da tutti come la peggiore delle ipotesi, è la
divisione del Paese in due o più mini-Stati, suscettibili di
trasformarsi in qualcosa di molto simile a dei protettorati di potenze
straniere. La Siria occidentale, che diventerebbe parte della sfera di
influenza iraniana e garante delle posizioni russe nel Mediterraneo, la
Siria centrale, garantita dal sostegno dell’Arabia Saudita o della
Turchia. Infine uno Stato curdo nella zona nord-orientale del Paese.
Questa opzione, tuttavia, è legata alla disponibilità di Washington di
premiare la sua proxy storicamente più fedele della regione e,
al contempo, di rischiare uno strappo definitivo nei rapporti con
Ankara. All’interno di questo scenario, però, rimarrebbe il problema
della minoranza cristiana, concentrata principalmente a Damasco e
Aleppo, che potrebbe trovarsi all’interno di quello Stato della Siria
centrale che verosimilmente andrebbe incontro a un processo di parziale,
se non completa, islamizzazione.
Altra soluzione potrebbe essere quella
di uno Stato federale, mentre sembra più difficile la preservazione
dell’assetto attuale realizzato contemporaneamente ad un processo di
transizione verso la democrazia. Questa è la soluzione caldeggiata
ufficialmente dai governi occidentali. Tuttavia la storia recente di
molti Stati già ha dimostrato come sia impossibile costruire un regime
democratico – anche malfunzionante – in assenza di attori realmente
democratici a popolare la scena politica e in presenza di pressioni
esterne ai confini nazionali esplicitamente volte a ostacolare questo
processo.