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lunedì 21 dicembre 2015

Dopo la notte di parigi. L'olimpismo necessario



Roma, 13 novembre. Ore 22.35. Ultime battute dell’amichevole Italia-Belgio. Una partita dura, durissima, che ha riconsegnato una nazionale ridimensionata di fronte ad una ex piccola in crescita. Lo Sport. I simboli. La sua forza. L’unione delle due squadre, che interrompono il calcio giocato, per unirsi al minuto 39’ del primo tempo e ricordare, insieme, le vittime dell’Heysel. Mai più un 29 maggio come quelli. Mai più una minaccia hooligans. Mai più morti inermi. Lo sport che unisce, lo sport che restituisce dignità a 39 morti ingiuste. Morti, avvenute nel silenzio, stigmatizzate dai posteri, in alcuni casi anche strumentalizzate. Morti appunto, su un terreno di gioco.
Lo stesso terreno, che, pochi chilometri più giù, a Parigi, un’ora più tardi si trasforma nel luogo di sicurezza e di salvezza di tutti: giocatori, staff, giornalisti, fotografi e spettatori. Un Presidente evacuato, le granate che cadono, la conta dei morti che sale. Prima 18. Poi 30. Poi 60 ostaggi. Riuniti in un ristorante, in una sala concerti o per strada. Non c’è luogo sicuro, senti franare ogni certezza sotto di te. Anche se adesso sei a letto, stanco e assisti all’edizione straordinaria in tv. Attonito. Stranito. Durante l’amichevole Francia- Germania. Un sorta di “tregua olimpica” violata. Sembra così assurdo. Un evento sportivo sospeso, com’era giusto e doveroso che fosse.
Intanto le misure di sicurezza si innalzano, si dimentica che lo Sport avrebbe potuto far riunire quelle vittime in quel ristorante o aver fatto incontrare quella gente per strada. Già, ancora lo Sport in un contesto di incertezza, di sospetto, di inasprimento di quei sentimenti striscianti di intolleranza tipicamente attuali. Tipicamente postumi da quel famoso 11 settembre. La paura che ci pervade, la speranza che consola. Eppure il 2016 è alle porte. Rio 2016 è alle porte. La Tregua Olimpica, quell’atto simbolico e così pieno di Olimpismo è già stato violato.
Arrivano le prime rivendicazioni, i primi sospetti. Occidente e Oriente. O meglio, Medio Oriente. Lo stadio parigino pieno di spettatori sul rettangolo verde, tutti storditi, increduli, mentre dalla regia passano al cronista questo dato: 100 ostaggi. Sfido chiunque adesso, chiunque si dichiari e avverta forte nel suo intimo il senso di unione, fratellanza e “pace” fra i prossimi tipica dello Sport a non sentirsi scosso. A non sentirsi già messo in discussione, già pronto ad essere l’attaccante iracheno Mahamood. Sì, proprio lui. Essere fin da subito quel Mahamood in grado di mettere tutti d’accordo, anche solo per un giorno. Per un’ora. Per un istante irrecuperabile di serenità. Per un goal.
E intanto le notizie delle sparatorie su Parigi aumentano, si moltiplicano, sprezzanti dei rischi per la vita umana. Lo Stato che deve fare lo Stato, proteggere i suoi cittadini. Proteggerli da loro, dai terroristi. Volti travisati, immaginati, stereotipati dal pregiudizio, identificati e svelati da 130 battute di un tweet. Un mondo che si risveglia, prende coscienza dell’insicurezza, della strada che c’è da percorrere. Una strada in salita, che ha la sua prima grande occasione nel 2016. E chissà che ancora una volta lo Sport non riesca a creare i ponti, là, dove i muri appaiono talmente tanto alti e robusti da non essere sgretolati. Là, dove si inaspriscono i piani di sicurezza degli Stati, che si trasformano in stati di polizia. Piani alfa, alfa uno, alfa due. In base alla gravità. In fondo, in un angolo, ad attenderli lo Sport. Quello vero. Quello interrotto dalle granate all’esterno dello Stade de France.
Sì, proprio il calcio, ancora una volta suo malgrado protagonista di una pagina nera della nostra umanità. Quella stessa umanità persa, da recuperare, da coltivare in una fase di crisi di valori ai più senza precedenti, senza soluzioni. Lo Sport, interrotto, che se ne sta lì, in un angolo, all’entrata del tunnel degli spogliatoi, davanti ai minischermi e trema, si dispera. In quel momento è l’immagine del mondo che domani, in un modo o nell’altro, dovrà ripartire. Non si sa come. Non con quale spirito. Non con quali pregiudizi. Quali colori di pelle, quali abbigliamenti, quali religioni, quali usanze saranno da domani “messe al bando” dalla fabbrica dell’intolleranza. La notte di Parigi, non è la notte d’Europa, ma una notte come tante, in cui l’umanità riscopre la sua attuale debolezza. La sua incapacità di svilupparsi di pari passo al suo progresso tecnologico. La notte di Parigi, il gelo nel sangue all’accavallarsi delle notizie, delle agenzie di stampa, che gridano al “totale caos” e lì, sullo sfondo, quel prossimo avvicendamento tra il 2015 e il 2016.  Un risveglio europeo non ancora avvenuto, le capitali in allerta, vestite da Gotham City. Non sembra vero tutto ciò, sembrava così lontano uno scenario di guerra dalle nostre terre che mai avremmo potuto pensare e sentirci così interessati da vicino. “Come nei film”, come in Medio Oriente, come in Africa, come negli Stati Uniti. Ma non in Europa, non da noi. Non nella terra dove è nata e si è sviluppata la Democrazia. Quella vera, non quella esportata in scenari di guerra e imposta senza confronti alle popolazioni da decenni sotto leggi dittatoriali o addirittura tribali.
Quindi le Olimpiadi, una Tregua già violata, atleti e delegazioni più in generale, che, mai come in questa fase, dovranno essere messaggeri di pace. Una pace reale, magari anche momentanea, che di per sé appare utopica già nel suo piccolo, nel suo apparire irrecuperabile. Messaggeri di una pace, che si fa piccola e umana al tempo stesso. La notte di Parigi e l’alba di Rio. Nel mezzo la Storia di una guerra da scongiurare con tutti i mezzi, quindi anche grazie allo Sport.
Nonostante i pregiudizi, nonostante gli eventi che potranno seguire, nonostante la geopolitica e i rapporti di forza tra i singoli Stati, che, ahimè, rischiano di riscoprirsi troppo come singole nazioni e poco come un’unica comunità.
            Pierpaolo Volpe
 studente MBA- diritto e management dello Sport

Infrastrutture, esperienze e competenze per i “docenti digitali”

Parlare di scuola nell’attuale panorama ipertecnologico e multimediale impone alcune riflessioni critiche, come ad esempio quella rispetto al tipo di scuola e di classe che vogliamo/dobbiamo immaginare nell’era globale. L’etichetta “classe” si basa su un principio di selezione finalizzato a creare classi omogene, in un tempo in cui la scuola operava alla formazione delle élite del paese; mentre oggi le nostre aule sono popolate da gruppi di apprendimento (persone) profondamente variegate tra loro sia in termini di bisogni, sia in termini di background e attese rispetto al processo educativo. In tal senso, la scuola ha largamente contribuito nel corso della modernità al processo di omogeneizzazione e appartenenza dello stato nazione. E’ evidente, però, che attualmente, quel modello di  scuola, all’interno di processi globali, multiculturali, eterogenei, diversificati ecc. non risponde più alle sfide culturali della nostra società. Continuiamo a denominare scuola un dispositivo sociale che è chiamato oggi a rispondere a necessità completamente diverse da quelle per cui era nato. Il rischio connesso a uno strabismo concettuale che impedisce una valutazione critica della situazione attuale è quello di difendere l’apparato scuola, tralasciando i destinatari di questo istituto, ignorando il tema e i risultati dell’apprendimento. Questo accade ad esempio quando ci confrontiamo con il tema dell’incorporazione delle Information Tecnhology Communication (ICT) nella didattica in quanto esse contribuiscono a modificare radicalmente il setting della realzione educativa e i processi di apprendimento come si cercherà di evidenziare in questo breve contributo.
Il 27 ottobre 2015 il MIUR ha pubblicato il nuovo piano digitale per la scuola con l’intento di proseguire sulla via dell’ammodernamento già introdotto con il Piano Scuola Digitale varato nel 2008. In quella prima fase, il Ministero si era concentrato prevalentemente sull’adeguamento dotazionale delle istituzioni educative, mediante quattro linee di azione tra loro complementari volte a introdurre Lavagne Interattive e Multimediali in classe; attrezzare aule multimediali, le cosiddette Aule 2.0; adeguare l’infrastruttura digitale di quella che viene denominata Scuola 2.0 e promuovere l’Editoria digitale. L’anagrafe delle tecnologie presenti nel sistema scolastico italiano, curata dal MIUR, consente di ricostruire lo stato di dotazione informatica delle nostre scuole[i] ma nulla dice sul reale utilizzo di tali dotazioni, né tantomeno sulle competenze agite dai docenti nell’utilizzo dei nuovi supporti multimediali. Ma come indicato dall’OCSE[ii], anche a fronte di questo investimento, l’Italia segna ancora un ritardo significativo rispetto alla maggior parte degli altri paesi occidentali. Gli sforzi sembrano sottodimensionati rispetto al ritardo strutturale che caratterizza la “dotazione di tecnologie digitali” nelle scuole italiane, dove lavagne interattive coprono solo il 16% delle classi. La principale valutazione critica è stata identificata dall’OCSE e riguarda la distribuzione limitata, la penetrazione e l’integrazione delle TIC nelle scuole e nelle pratiche didattiche ordinarie, che si traduce nella mancanza di risorse didattiche digitali a disposizione degli insegnanti; l’assenza di una fonte comune aperta, in grado di garantire la loro diffusione e la qualità; l’assenza di una piattaforma virtuale per lo scambio di beni digitali per l’utilizzo da parte degli insegnanti delle scuole di tutti i livelli; la mancanza di supporto per la formazione degli insegnanti e dei servizi, e la mancanza di sistemi di ricompensa e valutazione legata alla valutazione delle prestazioni. Questo stato di cose, come dimostra lo stesso rapporto, rende difficile da usare, in modo sistematico, l’integrazione di risorse digitali nelle pratiche didattiche ordinarie, ponendo le basi per la creazione di un crescente divario con gli altri paesi che hanno intrapreso con convinzione una politica di digitalizzazione dei sistemi di istruzione.
E’ evidente, quindi, che al nostro paese si chiede oggi uno sforzo di riflessività ulteriore, finalizzato a chiarire la “politica digitale che le istituzioni educative, ai diversi livelli, debano perseguire. In questo senso qualche spunto viene fornito dal nuovo Piano Digitale che introduce alcuni nuovi elementi che contribuiscono a spostare l’attenzione dagli aspetti meramente dotazionali, al loro utilizzo. Scorrendo il documento si può notare che, per la prima volta, si introducono nuovi elementi di riflessione che vanno dalla progettazione dello spazio virtuale e degli strumenti utilizzati e utilizzabili, alla definizione di una identità digitale per docenti e studenti, a cui si accompagna un ulteriore investimento in termini di digitalizzazione (dematerializzazione, registro elettronico, open dati); la definizione di un framework condiviso per identificare le competenze digitali (coe già accade all’estero) e l’introduzione di nuove possibilità di applicazione (Ricerca, Pensiero computazionale, Imprenditoria digitale, Animatore digitale, Accordi territoriali, Stakeholders club scuola digitale ecc.). E’ evidente dunque che ci troviamo in un momento in cui l’attenzione alla questione digitale è molto diffusa. Ma nessuna seria azione di promozione di una cultura digitale responsabile può avvenire senza una chiara conoscenza delle pratiche e delle competenze diffuse a scuola.
Per poter accompagnare processo di cambiamento, che ormai si ritiene ineludibile e non più riviabile, è necessario comprendere come cambiano le pratiche organizzative e professionali dei docenti nel confronto con le nuove tecnologie.
Come si può delineare il quadro delle competenze emergenti di quelli che possiamo definire “docenti digitali”.
L’etichetta docenti digitali è qui utiizzata più che per identificare uno status specifico, lo scenario in cui si muove l’intervento educativo dei nuovi “sacerdoti della conoscenza” (come li definiva Durkheim) nel XXI secolo. Scenario caratterizzato da un sistema educativo sempre più “retecentrico”; popolato da un target di studenti genericamente definito “nativi digitali”; da un quadro di conoscenze instabile, frammentato e disperso, impossibile da ricondurre al sapere chiuso e definito di natura enciclopedica di cui il “sacerdote della conoscenza”, per centinaia di anni, è stato unico portatore e garante; da un sistema di trasmissione composito che può avvalersi di una grande quantità di supporti digitali che interagiscono direttamente con il processo di costruzione della conoscenza, ecc.. Per provare a definire il quadro di competenze chiave necessario, può essere utile identificare il processo incrementale attraverso cui le tecnologie possono essere incluse nella pratica didattica. Puentedura elabora il modello SAMR che identifica quattro fasi di complessità crescente attraverso cui si costruisce il processo di costruzione della conoscenza mediante l’integrazione progressiva delle nuove tecnologie nella didattica. La prima fase è quella della sostituzione caratterizzata dall’esplorazione delle funzionalità delle ICT in affiancamento ai soli mezzi classici. Questa fase di scoperta è funzionale a sostenere il processo di brainstorming, utile a stimolare il pensiero creativo, laterale, divergente e ad accampagnare i ragazzi ad esplorare possibili collegamenti, a formulare nuove ipotesi e domande di ricerca. In questa fase al docente è richiesto in primo luogo di operare come un coach in grado di attivare le risorse latenti e le potenzialità inespresse dei suoi studenti, sostenendo la loro motivazione e la loro partecipazione; favorendo un processo di team building, offrendo sostegno e direzione nella costruzione del percorso di conoscenza da avviare. La seconda fase è quella dell’ampliamento in cui, mediante la varietà di supporti offerti della ICT si allargano le basi/opportunità di conoscenza degli studenti, attraverso l’utilizzo consapevole di motori di ricerca, risorse educative aperte, documenti e fonti ufficiali, riviste specializzate, banche dati ecc.. In questa fase ci si orienta verso l’analisi del tema/problema prescelto e si deve guidare il gruppo alla ricerca e alla selezione di fonti, all’analisi e alla schedatura del tema indagato, a sviluppare approfondimenti significativi. Al docente è richiesto di operare come un facilitatore di processo, di continuare a garantire un adeguato supporto motivazionale, di orientare e presidiare il processo in termini di resourses management, gestione dei gruppi, dei flussi e dei carichi di lavoro. La terza fase è quella della sperimentazione in cui ci si cimenta con l’elaborazione di nuovi contenuti e materiali, e/o con prodotti della conoscenza rielaborati, anche in maniera collaborativa, direttamente dai ragazzi. In questa fase, si deve guidare gli studenti verso l’organizzazione logica e coerente del loro sapere, sostenere un processo argomentativo solido, attraverso la verifica delle ipotesi e delle domande di ricerca che hanno orientato il lavoro. Sarà importante in questa fase per il docente mantenere un orientamento al compito e agli obiettivi, esercitare un’attenta gestione del tempo e delle risorse, attivare azioni di monitoraggio e di valutazione in itinere, non solo degli apprendimenti, ma soprattutto rispetto al processo e al sistema, ai fini di un’adeguata riprogettazione dell’attività didattica. L’ultima fase sarà quella dell’elaborazione di nuovi strumenti, progetti e prodotti della conoscenza, e della scelta delle tecnologie multimediali più adeguate all’obiettivo/target di conoscenza individuati, perché ogni supporto ha un suo codice comunicativo precipuo e distintivo. Quest’ultima fase, si caratterizza per la riflessione critica dell’esperienza e del sapere acquisito, e per la sua sistematizzazione entro più ampi sistemi di conoscenza. Al docente è così richiesto di guidare un processo di meta-valutazione, valorizzazione, diffusione e condivisione dei risultati raggiunti, per aiutare gli studenti a riconoscere (e ad appropriarsene) i progressi raggiunti. Una situazione di questo tipo implica un’alterazione radicale del tradizionale setting didattico che richiede un nuovo patto educativo tra scuola, società, famiglie e studenti. Si assiste a una destrutturazione della relazione educativa che modifica radicalmente la relazione di potere docente-studente, all’interno di una classe che appare sempre più “liquida” poiché perde i consueti confini spazio-temporali.
Da quanto emerge, ad ogni fase corrisponde uno stile educativo diverso, che potremmo definire “situazionale”, capace cioè di agire competenze differenti, in ordine al precipuo obiettivo di apprendimento che ci si trova a governare mediante l’ausilio delle nuove tecnologie: motivazionale nella fase di avvio; direttivo nella fase di indagine, supportivo nella fase di sperimentazione e restitutivo nella fase di sistematizzazione. Per introdurre le nuove tecnologie nella didattica dunque non è sufficiente potenziare l’infrastruttura dotazionale o concentrarsi esclusivamente sulle competenze digitali dei docenti ma bisogna sostenere ancor di più lo spettro di competenze emergenti che si articolano in tre differenti macroree: quelle socio-emozionali (comunicazione interpersonale, leadership educativa, problem solving, problem setting, gestione dei conflitti, decision making, intelligenza emotiva); quelle comunicative (media literacy, digital literacy, media competence, communicative competences) e quelle metodologiche (di analisi, di gestione di processi complessi, progettuali e valutative). L’innovazione digitale a scuola non è solo una questione di dotazione tecnologica ma si esprime prima di tutto mediante un progetto politico e culturale che sia capace di esprimere quale modello di scuola, e quale profilo professionale, sia adeguato a rispondere alle sfide della scuole nel XXI secolo. Per costruire un’idea di scuola adeguata ai tempi è necessario conoscere lo stato dell’arte attraverso la ricostruzione di usi, fabbisogni di formazione e pratiche agite nei contesti reali. È la metodologia che trasforma il contenuto e le sue applicazioni, è l’uso sociale attraverso cui le tecnologie vengono ‘naturalizzate’ e incorporate nelle nostre routines professionali e organizzative a determinare processi di innovazione e cambiamento. Ed è a questo bisogno di comprensione e innovazione che vuole rispondere la ricerca-intervento[iii] condotta in convenzione tra l’Università degli Studi Link Campus University e l’Associazione Nazionale Presidi (ANP), finalizzata a rilevare pratiche, usi e competenze digitali diffuse nelle istituzioni scolastiche sia per fornire una visione di sistema utile alla definizione di ogni intervento di policy in campo educativo, sia per offrire al management delle istituzioni educative un quadro di conoscenza utile a definire azioni di micropolitica di istituto, perché le tecnologie trasformano le nostre aule solo in funzione di come sappiamo usarle.
di Stefania Capogna
docente di
Sociologia della comunicazione
Comunicazione pubblica e d’impresa

[i] Capogna, S. (2014/b). Scuola, Università, E-learning. Una lettura sociologica. Roma: Armando.
[ii] OCSE (2013). Review of the Italian Strategy for Digital Schools.OECD.
[iii] Tutti i docenti di scuola di ogni ordine e grado possono partecipare alla ricerca collegandosi al seguente link: https://it.surveymonkey.com/r/ricerca-competenze-digitali

venerdì 18 dicembre 2015

Stati d’eccezione e guerra al terrore

Trois mots pour les morts et les vivants, questo il titolo della breve riflessione che il filosofo Etienne Balibar, autore del volume Violence et Civilté (Galilée, 2010), scriveva a pochi giorni dall’attacco alla redazione di Charlie Hebdo (Liberation, 10-11 Janvier 2015). Tre parole che intendevano richiamare gli intellettuali (francesi e non) al loro dovere non solo di prendere parola nel momento del dolore e dello sconcerto collettivo, ma sopratutto di esprimersi senza reticenze o calcoli. E in tal senso intorno a tre temi – comunità, imprudenza, jihad – Balibar riteneva che fosse necessario convogliare lo sforzo collettivo del pensiero critico.
Perché in effetti il dovere, che ricordava il filosofo francese, non deriva da un qualche privilegio elitario, ma, al contrario, dalla specifica funzione sociale degli intellettuali. Ed è proprio in questo che risiede la stringente attualità del contributo di Balibar di 10 mesi fa: per chi – senza reticenza o calcoli – si misura con quei temi non è possibile evitare il rischio del paradosso e delle strettoie.
Se abbiamo, difatti, bisogno di comunità (per elaborare il lutto, per riflettere e per proteggerci), il rischio è che questa si chiuda per escludere, cedendo alla tentazione dello scontro di civiltà a cui proprio i terroristi ci chiamano. E ancor più ambivalente è – come era nel caso della linea editoriale di Charlie Hebdo – l’imprudenza: perché l’imprudenza è il rifiuto radicale di entrare nella logica del terrore; ma d’altro canto è anche indifferenza rispetto alle conseguenze collettive delle nostre provocazioni. Se poi il tentativo è quello di comprendere le implicazioni e le valenze attuali del jihad, il rischio sta nel cedere alla tentazione della semplificazione. In risposta alle riduttive e scellerate argomentazioni degli islamofobi, si è tentati di rispondere con un’altra riduzione: quella che, evidenziando solo l’aspetto pretestuoso e strumentale della dimensione religiosa del terrore jihadista, scoraggia una riflessione teologica interna all’islam che possa, agli occhi dei credenti, recidere gli ancoramenti coranici del jihadismo.
Si cammina, dunque, su un filo di lana che, dopo le stragi di Parigi del 13 novembre, pare sul punto di rompersi. In effetti da Charlie Hebdo al Bataclan, non è scorso solo altro sangue (e non solo a Parigi), ma è anche cambiato radicalmente lo scenario. Rispetto alla strage di gennaio, gli attacchi di novembre hanno realizzato un salto organizzativo dell’Isis, che adombra una vera e propria strategia di guerra sul fronte occidentale. Ma non basta: il filo si tende pericolosamente sotto i nostri piedi non solo sul tema del jihad ma anche su quello della comunità e dell’imprudenza. In effetti la proclamazione dello stato d’emergenza in Francia ha segnato anch’essa uno spartiacque. François Hollande è ricorso a uno dei dispositivi giuridici più controversi e dibattuti dalla fine della quarta Repubblica a oggi, sostenendo soprattutto la necessità di una revisione costituzionale che renda possibile una maggiore durata temporale per lo stato d’eccezione.
Questa possibile modifica non riguarda affatto un aspetto meramente tecnico ma un nodo nevralgico degli equilibri democratici della Repubblica. A dimostrarlo è la storia stessa della legge francese sullo stato d’emergenza che si intreccia strettamente con quella coloniale: approvata nel 1955 per far fronte all’insurrezione algerina, fu successivamente applicata nel 1958 e nel 1961 (sempre nella temperie della guerra d’Algeria), per poi essere riattivata nel 1985 in occasione della sollevazione indipendentista in Nuova Caledonia e, per ultimo, nel 2005 durante le rivolte delle banlieues. In tutte queste occasioni il ricorso a tale dispositivo ha sempre implicato riconoscere la necessità, per la difesa della stessa Repubblica, di istaurare temporaneamente uno regime d’eccezione che sospendesse alcune delle libertà fondamentali garantite dalla costituzione. Infatti il testo della legge, fra le altre cose, dà facoltà alle autorità civili di imporre la chiusura di luoghi pubblici, di decretare il divieto di riunione e assembramento, e di esercitare controllo sulle pubblicazioni, i mezzi di informazione così come sulle proiezioni cinematografiche e le rappresentazioni teatrali. Inoltre, lo stato d’emergenza priva il potere giudiziario di alcune sue prerogative essenziali, attribuendo all’esecutivo la decisione di svolgere perquisizioni e riconoscendo la possibilità di dichiarare competente la giustizia militare.
A uno sguardo superficiale tale dispositivo giuridico sembra duplicare inutilmente lo stato d’assedio, previsto dall’articolo 36 della costituzione. In effetti l’approvazione della legge nel 1955 rispondeva all’esigenza di istaurare uno stato d’eccezione senza dover decretare lo stato d’assedio che appariva, nel contesto della situazione coloniale, politicamente inopportuno: implicava, infatti, riconoscere un’organizzazione militare al nazionalismo algerino e, di conseguenza, ammettere che l’Algeria fosse un territorio di guerra distaccato dalla Francia, laddove invece si trattava di rinsaldare la continuità amministrativa con il territorio metropolitano.
La legge del 1955 faceva, dunque, uscire da questo impasse politico iscrivendo un nuovo stato d’eccezione nel diritto francese che fosse applicabile a qualsiasi porzione del territorio nazionale. In questo modo era possibile aggirare qualsiasi riferimento alla condizione contingente dell’Algeria sebbene la sua prima applicazione riguardò esclusivamente il territorio algerino.
Solo tre anni più tardi però, nel maggio 1958, lo stato d’emergenza fu applicato, per due settimane, in quello metropolitano; un ricorso che mostrava quanto la questione algerina avesse investito il cuore politico stesso del paese: stavolta non erano i nazionalisti algerini a rappresentare la minaccia ma i partigiani dell’Algeria francese dopo il tentato putsch del 13 maggio ad Algeri.
Proprio la situazione algerina fu infatti la causa scatenante della crisi della IV Repubblica, portando alla stesura di una nuova costituzione che dava maggiori poteri al capo dello Stato. Sarà dunque Charles De Gaulle, primo presidente della V Repubblica, a voler riformare nel 1960 le procedure di applicazione della legge del 1955, mantenendo però fra i due dispositivi giuridici una differenza fondamentale: infatti lo stato d’emergenza, al contrario di quello di assedio, accorda poteri straordinari all’esecutivo e non all’esercito.
Così che quando il 22 aprile dell’anno successivo Algeri si risvegliò nelle mani dei militari, il consiglio dei ministri a Parigi decretò immediatamente lo stato d’emergenza sul territorio militare per difendere le istituzioni repubblicane. Si aprì allora la fase più lunga che la Francia abbia mai conosciuto di regime d’eccezione che terminò solo nel maggio del 1963, ben oltre la fine della guerra algerina (marzo 1962) e la proclamazione dell’indipendenza (luglio 1962).
Nel suo lungo e travagliato percorso storico, lo stato di emergenza ha dunque dimostrato la sua duplice natura. Da un lato è chiaramente uno strumento di repressione politica che può essere applicato indiscriminatamente: dal 1958 al 1963 fu infatti applicato contro i nazionalisti algerini come contro i partigiani dell’Algeria francese. Dall’altro lato esso è anche uno strumento di difesa della Repubblica e delle istituzioni democratiche, qualora queste siano minacciate da forze eversive. Tuttavia, anche se si accetta il rischioso paradosso secondo cui per difendere la libertà e necessario – in condizioni estreme – sospenderla, si pone una questione dirimente: quando e in che modo stabilire che le condizioni che giustificano lo stato d’eccezione sono cessate?
La fase aperta nell’aprile del 1961 e chiusa solo nel 1963 mostra infatti come un prolungato stato di eccezione trasformi quest’ultimo in uno dei tanti strumenti del potere esecutivo, motivando dunque una sua banalizzazione.
Ed è la questione che pare destinata a riaprirsi qualora Hollande dia seguito alla riforma costituzionale da lui auspicata che consentirebbe uno stato d’eccezione duraturo e compatibile con le condizioni di una guerra contro il terrore jihadista.
Un Patriot Act alla francese?
Merry Christmas
«Una deputata di Las Vegas (Nevada), Michele Fiore, ha pubblicato sulla sua pagina Facebook una cartolina di auguri di Natale nella quale appare insieme alla sua famiglia. Tutti posano con una maglietta rossa  e con i calzini ai piedi. Un perfetto stile natalizio, se non fosse per le armi impugnate dai protagonisti dell’immagine, compreso uno dei bambini. “Tocca agli americani proteggere l’America – scrive la politica – noi siamo solo una comune famiglia americana. Con amore e libertà, Michele”». Da La Repubblica, 6 dicembre 2012
Forse finirà davvero così, come si augura il post natalizio della deputata statunitense: ognuno di noi si doterà di un’arma di qualche tipo e, se qualche terrorista ci attaccherà, risponderemo subito, uccidendolo. O, ancora meglio, ce ne andremo in giro per strada e, se noteremo un sospetto di terrorismo islamista (che è sospetto lo decideremo noi!), gli spareremo direttamente, evitando così potenziali attacchi.
Un’estremizzazione, naturalmente. O, almeno, speriamo che lo sia. Resta comunque inquietate sapere che un membro del Congresso abbia potuto immaginare questo tipo di auguri di Natale.
A volte, gli Stati Uniti esagerano, si sa. Non molti anni orsono, il Presidente Bush Jr., per prevenire il terrorismo, firmò una legge che limitava la libertà dei cittadini; e che apriva agli orrori di Guantanamo, di Abu Ghraib, delle extraordinary renditions, dei black sites, della tortura legalizzata. Era il notorio Patriot Act, che permetteva di interferire con la privacy controllando comunicazioni telefoniche e telematiche, di accedere ad informazioni contenute, per esempio, nelle cartelle cliniche e nei dati bancari, di prelevare impronte digitali nelle biblioteche, di effettuare perquisizioni ripetute in casa (case di musulmani e arabi?) senza mandato. Le cose andavano assai peggio per i cittadini stranieri (musulmani e arabi?): se sospettati di terrorismo o di attività che mettevano in pericolo la sicurezza degli USA, potevano essere soggetti a detenzione a tempo indeterminato. Certo, si trattava del 2001, l’anno dell’attentato alle Torri Gemelle. Certo, gli Stati Uniti erano presi nella morsa del terrore. Ed il terrore acceca e può ottundere le capacità razionali. Almeno, è comprensibile che questo accada agli individui, mentre dai governanti ci aspetteremmo più sangue freddo e la capacità di non cedere ad istinti vendicativi. E ancora di più dovremmo aspettarcelo da governanti che sbandiero i valori e i diritti occidentali; salvo poi non chiarire quali siano i valori e i diritti occidentali in difesa dei quali dovremmo essere disposti a rinunciare a libertà fondamentali, per entrare in uno stato d’eccezione i cui contorni si dilatano e diventano sempre più imprecisi. Il Patriot act è, difatti, tutt’ora in vigore ed è stato applicato ben oltre la lotta al terrorismo.
Già dopo la strage di Charlie Hebdo, non erano mancati, fra i politici francesi, i sostenitori di un Patriot act “alla francese”. A proporlo non erano state le frange più estreme dell’arco parlamentare d’oltralpe, ma uomini e donne di Stato come Valérie Pécresse, membro del Consiglio di Stato, ex-consigliera di Jacques Chirac e più volte ministra (dei Conti Pubblici e della Riforma dello Stato, 2011-2012; dell’Università e della Ricerca, 2007-2011).
Per questo, dopo gli attacchi a Parigi dello scorso mese, è necessario più che mai dibattere sulle implicazioni degli stati di eccezione, senza eludere l’argomento più controverso: i pericoli che, per la democrazia e i “valori occidentali”, derivano dalla sospensione di libertà fondamentali. Al riguardo, il filosofo Jean Baudrillard scriveva nel 2002: «L’atto repressivo percorre la stessa spirale imprevedibile dell’atto terroristico, nessuno sa dove si fermerà, né i rivolgimenti che ne seguiranno. (…) Ed è questo scatenarsi incontrollabile della reversibilità che segna la vittoria del terrorismo. Vittoria visibile (…) nella recessione del sistema di valori, di tutta l’ideologia di libertà, di libera circolazione ecc., che faceva la fierezza del mondo occidentale, e di cui esso si valeva per esercitare il suo dominio sul resto del mondo» (Lo spirito del terrorismo, Raffaello Cortina Editore 202, pp. 41-2).
Insomma, se per combattere il nemico cambiamo troppo noi stessi, abbiamo perso.
Studi Politici e Internazionali – Link Campus University