Vuoi scrivere sul blog?
Manda un email a linkcampusblog@gmail.com!
Ti aspettiamo!

lunedì 21 dicembre 2015

Dopo la notte di parigi. L'olimpismo necessario



Roma, 13 novembre. Ore 22.35. Ultime battute dell’amichevole Italia-Belgio. Una partita dura, durissima, che ha riconsegnato una nazionale ridimensionata di fronte ad una ex piccola in crescita. Lo Sport. I simboli. La sua forza. L’unione delle due squadre, che interrompono il calcio giocato, per unirsi al minuto 39’ del primo tempo e ricordare, insieme, le vittime dell’Heysel. Mai più un 29 maggio come quelli. Mai più una minaccia hooligans. Mai più morti inermi. Lo sport che unisce, lo sport che restituisce dignità a 39 morti ingiuste. Morti, avvenute nel silenzio, stigmatizzate dai posteri, in alcuni casi anche strumentalizzate. Morti appunto, su un terreno di gioco.
Lo stesso terreno, che, pochi chilometri più giù, a Parigi, un’ora più tardi si trasforma nel luogo di sicurezza e di salvezza di tutti: giocatori, staff, giornalisti, fotografi e spettatori. Un Presidente evacuato, le granate che cadono, la conta dei morti che sale. Prima 18. Poi 30. Poi 60 ostaggi. Riuniti in un ristorante, in una sala concerti o per strada. Non c’è luogo sicuro, senti franare ogni certezza sotto di te. Anche se adesso sei a letto, stanco e assisti all’edizione straordinaria in tv. Attonito. Stranito. Durante l’amichevole Francia- Germania. Un sorta di “tregua olimpica” violata. Sembra così assurdo. Un evento sportivo sospeso, com’era giusto e doveroso che fosse.
Intanto le misure di sicurezza si innalzano, si dimentica che lo Sport avrebbe potuto far riunire quelle vittime in quel ristorante o aver fatto incontrare quella gente per strada. Già, ancora lo Sport in un contesto di incertezza, di sospetto, di inasprimento di quei sentimenti striscianti di intolleranza tipicamente attuali. Tipicamente postumi da quel famoso 11 settembre. La paura che ci pervade, la speranza che consola. Eppure il 2016 è alle porte. Rio 2016 è alle porte. La Tregua Olimpica, quell’atto simbolico e così pieno di Olimpismo è già stato violato.
Arrivano le prime rivendicazioni, i primi sospetti. Occidente e Oriente. O meglio, Medio Oriente. Lo stadio parigino pieno di spettatori sul rettangolo verde, tutti storditi, increduli, mentre dalla regia passano al cronista questo dato: 100 ostaggi. Sfido chiunque adesso, chiunque si dichiari e avverta forte nel suo intimo il senso di unione, fratellanza e “pace” fra i prossimi tipica dello Sport a non sentirsi scosso. A non sentirsi già messo in discussione, già pronto ad essere l’attaccante iracheno Mahamood. Sì, proprio lui. Essere fin da subito quel Mahamood in grado di mettere tutti d’accordo, anche solo per un giorno. Per un’ora. Per un istante irrecuperabile di serenità. Per un goal.
E intanto le notizie delle sparatorie su Parigi aumentano, si moltiplicano, sprezzanti dei rischi per la vita umana. Lo Stato che deve fare lo Stato, proteggere i suoi cittadini. Proteggerli da loro, dai terroristi. Volti travisati, immaginati, stereotipati dal pregiudizio, identificati e svelati da 130 battute di un tweet. Un mondo che si risveglia, prende coscienza dell’insicurezza, della strada che c’è da percorrere. Una strada in salita, che ha la sua prima grande occasione nel 2016. E chissà che ancora una volta lo Sport non riesca a creare i ponti, là, dove i muri appaiono talmente tanto alti e robusti da non essere sgretolati. Là, dove si inaspriscono i piani di sicurezza degli Stati, che si trasformano in stati di polizia. Piani alfa, alfa uno, alfa due. In base alla gravità. In fondo, in un angolo, ad attenderli lo Sport. Quello vero. Quello interrotto dalle granate all’esterno dello Stade de France.
Sì, proprio il calcio, ancora una volta suo malgrado protagonista di una pagina nera della nostra umanità. Quella stessa umanità persa, da recuperare, da coltivare in una fase di crisi di valori ai più senza precedenti, senza soluzioni. Lo Sport, interrotto, che se ne sta lì, in un angolo, all’entrata del tunnel degli spogliatoi, davanti ai minischermi e trema, si dispera. In quel momento è l’immagine del mondo che domani, in un modo o nell’altro, dovrà ripartire. Non si sa come. Non con quale spirito. Non con quali pregiudizi. Quali colori di pelle, quali abbigliamenti, quali religioni, quali usanze saranno da domani “messe al bando” dalla fabbrica dell’intolleranza. La notte di Parigi, non è la notte d’Europa, ma una notte come tante, in cui l’umanità riscopre la sua attuale debolezza. La sua incapacità di svilupparsi di pari passo al suo progresso tecnologico. La notte di Parigi, il gelo nel sangue all’accavallarsi delle notizie, delle agenzie di stampa, che gridano al “totale caos” e lì, sullo sfondo, quel prossimo avvicendamento tra il 2015 e il 2016.  Un risveglio europeo non ancora avvenuto, le capitali in allerta, vestite da Gotham City. Non sembra vero tutto ciò, sembrava così lontano uno scenario di guerra dalle nostre terre che mai avremmo potuto pensare e sentirci così interessati da vicino. “Come nei film”, come in Medio Oriente, come in Africa, come negli Stati Uniti. Ma non in Europa, non da noi. Non nella terra dove è nata e si è sviluppata la Democrazia. Quella vera, non quella esportata in scenari di guerra e imposta senza confronti alle popolazioni da decenni sotto leggi dittatoriali o addirittura tribali.
Quindi le Olimpiadi, una Tregua già violata, atleti e delegazioni più in generale, che, mai come in questa fase, dovranno essere messaggeri di pace. Una pace reale, magari anche momentanea, che di per sé appare utopica già nel suo piccolo, nel suo apparire irrecuperabile. Messaggeri di una pace, che si fa piccola e umana al tempo stesso. La notte di Parigi e l’alba di Rio. Nel mezzo la Storia di una guerra da scongiurare con tutti i mezzi, quindi anche grazie allo Sport.
Nonostante i pregiudizi, nonostante gli eventi che potranno seguire, nonostante la geopolitica e i rapporti di forza tra i singoli Stati, che, ahimè, rischiano di riscoprirsi troppo come singole nazioni e poco come un’unica comunità.
            Pierpaolo Volpe
 studente MBA- diritto e management dello Sport

Infrastrutture, esperienze e competenze per i “docenti digitali”

Parlare di scuola nell’attuale panorama ipertecnologico e multimediale impone alcune riflessioni critiche, come ad esempio quella rispetto al tipo di scuola e di classe che vogliamo/dobbiamo immaginare nell’era globale. L’etichetta “classe” si basa su un principio di selezione finalizzato a creare classi omogene, in un tempo in cui la scuola operava alla formazione delle élite del paese; mentre oggi le nostre aule sono popolate da gruppi di apprendimento (persone) profondamente variegate tra loro sia in termini di bisogni, sia in termini di background e attese rispetto al processo educativo. In tal senso, la scuola ha largamente contribuito nel corso della modernità al processo di omogeneizzazione e appartenenza dello stato nazione. E’ evidente, però, che attualmente, quel modello di  scuola, all’interno di processi globali, multiculturali, eterogenei, diversificati ecc. non risponde più alle sfide culturali della nostra società. Continuiamo a denominare scuola un dispositivo sociale che è chiamato oggi a rispondere a necessità completamente diverse da quelle per cui era nato. Il rischio connesso a uno strabismo concettuale che impedisce una valutazione critica della situazione attuale è quello di difendere l’apparato scuola, tralasciando i destinatari di questo istituto, ignorando il tema e i risultati dell’apprendimento. Questo accade ad esempio quando ci confrontiamo con il tema dell’incorporazione delle Information Tecnhology Communication (ICT) nella didattica in quanto esse contribuiscono a modificare radicalmente il setting della realzione educativa e i processi di apprendimento come si cercherà di evidenziare in questo breve contributo.
Il 27 ottobre 2015 il MIUR ha pubblicato il nuovo piano digitale per la scuola con l’intento di proseguire sulla via dell’ammodernamento già introdotto con il Piano Scuola Digitale varato nel 2008. In quella prima fase, il Ministero si era concentrato prevalentemente sull’adeguamento dotazionale delle istituzioni educative, mediante quattro linee di azione tra loro complementari volte a introdurre Lavagne Interattive e Multimediali in classe; attrezzare aule multimediali, le cosiddette Aule 2.0; adeguare l’infrastruttura digitale di quella che viene denominata Scuola 2.0 e promuovere l’Editoria digitale. L’anagrafe delle tecnologie presenti nel sistema scolastico italiano, curata dal MIUR, consente di ricostruire lo stato di dotazione informatica delle nostre scuole[i] ma nulla dice sul reale utilizzo di tali dotazioni, né tantomeno sulle competenze agite dai docenti nell’utilizzo dei nuovi supporti multimediali. Ma come indicato dall’OCSE[ii], anche a fronte di questo investimento, l’Italia segna ancora un ritardo significativo rispetto alla maggior parte degli altri paesi occidentali. Gli sforzi sembrano sottodimensionati rispetto al ritardo strutturale che caratterizza la “dotazione di tecnologie digitali” nelle scuole italiane, dove lavagne interattive coprono solo il 16% delle classi. La principale valutazione critica è stata identificata dall’OCSE e riguarda la distribuzione limitata, la penetrazione e l’integrazione delle TIC nelle scuole e nelle pratiche didattiche ordinarie, che si traduce nella mancanza di risorse didattiche digitali a disposizione degli insegnanti; l’assenza di una fonte comune aperta, in grado di garantire la loro diffusione e la qualità; l’assenza di una piattaforma virtuale per lo scambio di beni digitali per l’utilizzo da parte degli insegnanti delle scuole di tutti i livelli; la mancanza di supporto per la formazione degli insegnanti e dei servizi, e la mancanza di sistemi di ricompensa e valutazione legata alla valutazione delle prestazioni. Questo stato di cose, come dimostra lo stesso rapporto, rende difficile da usare, in modo sistematico, l’integrazione di risorse digitali nelle pratiche didattiche ordinarie, ponendo le basi per la creazione di un crescente divario con gli altri paesi che hanno intrapreso con convinzione una politica di digitalizzazione dei sistemi di istruzione.
E’ evidente, quindi, che al nostro paese si chiede oggi uno sforzo di riflessività ulteriore, finalizzato a chiarire la “politica digitale che le istituzioni educative, ai diversi livelli, debano perseguire. In questo senso qualche spunto viene fornito dal nuovo Piano Digitale che introduce alcuni nuovi elementi che contribuiscono a spostare l’attenzione dagli aspetti meramente dotazionali, al loro utilizzo. Scorrendo il documento si può notare che, per la prima volta, si introducono nuovi elementi di riflessione che vanno dalla progettazione dello spazio virtuale e degli strumenti utilizzati e utilizzabili, alla definizione di una identità digitale per docenti e studenti, a cui si accompagna un ulteriore investimento in termini di digitalizzazione (dematerializzazione, registro elettronico, open dati); la definizione di un framework condiviso per identificare le competenze digitali (coe già accade all’estero) e l’introduzione di nuove possibilità di applicazione (Ricerca, Pensiero computazionale, Imprenditoria digitale, Animatore digitale, Accordi territoriali, Stakeholders club scuola digitale ecc.). E’ evidente dunque che ci troviamo in un momento in cui l’attenzione alla questione digitale è molto diffusa. Ma nessuna seria azione di promozione di una cultura digitale responsabile può avvenire senza una chiara conoscenza delle pratiche e delle competenze diffuse a scuola.
Per poter accompagnare processo di cambiamento, che ormai si ritiene ineludibile e non più riviabile, è necessario comprendere come cambiano le pratiche organizzative e professionali dei docenti nel confronto con le nuove tecnologie.
Come si può delineare il quadro delle competenze emergenti di quelli che possiamo definire “docenti digitali”.
L’etichetta docenti digitali è qui utiizzata più che per identificare uno status specifico, lo scenario in cui si muove l’intervento educativo dei nuovi “sacerdoti della conoscenza” (come li definiva Durkheim) nel XXI secolo. Scenario caratterizzato da un sistema educativo sempre più “retecentrico”; popolato da un target di studenti genericamente definito “nativi digitali”; da un quadro di conoscenze instabile, frammentato e disperso, impossibile da ricondurre al sapere chiuso e definito di natura enciclopedica di cui il “sacerdote della conoscenza”, per centinaia di anni, è stato unico portatore e garante; da un sistema di trasmissione composito che può avvalersi di una grande quantità di supporti digitali che interagiscono direttamente con il processo di costruzione della conoscenza, ecc.. Per provare a definire il quadro di competenze chiave necessario, può essere utile identificare il processo incrementale attraverso cui le tecnologie possono essere incluse nella pratica didattica. Puentedura elabora il modello SAMR che identifica quattro fasi di complessità crescente attraverso cui si costruisce il processo di costruzione della conoscenza mediante l’integrazione progressiva delle nuove tecnologie nella didattica. La prima fase è quella della sostituzione caratterizzata dall’esplorazione delle funzionalità delle ICT in affiancamento ai soli mezzi classici. Questa fase di scoperta è funzionale a sostenere il processo di brainstorming, utile a stimolare il pensiero creativo, laterale, divergente e ad accampagnare i ragazzi ad esplorare possibili collegamenti, a formulare nuove ipotesi e domande di ricerca. In questa fase al docente è richiesto in primo luogo di operare come un coach in grado di attivare le risorse latenti e le potenzialità inespresse dei suoi studenti, sostenendo la loro motivazione e la loro partecipazione; favorendo un processo di team building, offrendo sostegno e direzione nella costruzione del percorso di conoscenza da avviare. La seconda fase è quella dell’ampliamento in cui, mediante la varietà di supporti offerti della ICT si allargano le basi/opportunità di conoscenza degli studenti, attraverso l’utilizzo consapevole di motori di ricerca, risorse educative aperte, documenti e fonti ufficiali, riviste specializzate, banche dati ecc.. In questa fase ci si orienta verso l’analisi del tema/problema prescelto e si deve guidare il gruppo alla ricerca e alla selezione di fonti, all’analisi e alla schedatura del tema indagato, a sviluppare approfondimenti significativi. Al docente è richiesto di operare come un facilitatore di processo, di continuare a garantire un adeguato supporto motivazionale, di orientare e presidiare il processo in termini di resourses management, gestione dei gruppi, dei flussi e dei carichi di lavoro. La terza fase è quella della sperimentazione in cui ci si cimenta con l’elaborazione di nuovi contenuti e materiali, e/o con prodotti della conoscenza rielaborati, anche in maniera collaborativa, direttamente dai ragazzi. In questa fase, si deve guidare gli studenti verso l’organizzazione logica e coerente del loro sapere, sostenere un processo argomentativo solido, attraverso la verifica delle ipotesi e delle domande di ricerca che hanno orientato il lavoro. Sarà importante in questa fase per il docente mantenere un orientamento al compito e agli obiettivi, esercitare un’attenta gestione del tempo e delle risorse, attivare azioni di monitoraggio e di valutazione in itinere, non solo degli apprendimenti, ma soprattutto rispetto al processo e al sistema, ai fini di un’adeguata riprogettazione dell’attività didattica. L’ultima fase sarà quella dell’elaborazione di nuovi strumenti, progetti e prodotti della conoscenza, e della scelta delle tecnologie multimediali più adeguate all’obiettivo/target di conoscenza individuati, perché ogni supporto ha un suo codice comunicativo precipuo e distintivo. Quest’ultima fase, si caratterizza per la riflessione critica dell’esperienza e del sapere acquisito, e per la sua sistematizzazione entro più ampi sistemi di conoscenza. Al docente è così richiesto di guidare un processo di meta-valutazione, valorizzazione, diffusione e condivisione dei risultati raggiunti, per aiutare gli studenti a riconoscere (e ad appropriarsene) i progressi raggiunti. Una situazione di questo tipo implica un’alterazione radicale del tradizionale setting didattico che richiede un nuovo patto educativo tra scuola, società, famiglie e studenti. Si assiste a una destrutturazione della relazione educativa che modifica radicalmente la relazione di potere docente-studente, all’interno di una classe che appare sempre più “liquida” poiché perde i consueti confini spazio-temporali.
Da quanto emerge, ad ogni fase corrisponde uno stile educativo diverso, che potremmo definire “situazionale”, capace cioè di agire competenze differenti, in ordine al precipuo obiettivo di apprendimento che ci si trova a governare mediante l’ausilio delle nuove tecnologie: motivazionale nella fase di avvio; direttivo nella fase di indagine, supportivo nella fase di sperimentazione e restitutivo nella fase di sistematizzazione. Per introdurre le nuove tecnologie nella didattica dunque non è sufficiente potenziare l’infrastruttura dotazionale o concentrarsi esclusivamente sulle competenze digitali dei docenti ma bisogna sostenere ancor di più lo spettro di competenze emergenti che si articolano in tre differenti macroree: quelle socio-emozionali (comunicazione interpersonale, leadership educativa, problem solving, problem setting, gestione dei conflitti, decision making, intelligenza emotiva); quelle comunicative (media literacy, digital literacy, media competence, communicative competences) e quelle metodologiche (di analisi, di gestione di processi complessi, progettuali e valutative). L’innovazione digitale a scuola non è solo una questione di dotazione tecnologica ma si esprime prima di tutto mediante un progetto politico e culturale che sia capace di esprimere quale modello di scuola, e quale profilo professionale, sia adeguato a rispondere alle sfide della scuole nel XXI secolo. Per costruire un’idea di scuola adeguata ai tempi è necessario conoscere lo stato dell’arte attraverso la ricostruzione di usi, fabbisogni di formazione e pratiche agite nei contesti reali. È la metodologia che trasforma il contenuto e le sue applicazioni, è l’uso sociale attraverso cui le tecnologie vengono ‘naturalizzate’ e incorporate nelle nostre routines professionali e organizzative a determinare processi di innovazione e cambiamento. Ed è a questo bisogno di comprensione e innovazione che vuole rispondere la ricerca-intervento[iii] condotta in convenzione tra l’Università degli Studi Link Campus University e l’Associazione Nazionale Presidi (ANP), finalizzata a rilevare pratiche, usi e competenze digitali diffuse nelle istituzioni scolastiche sia per fornire una visione di sistema utile alla definizione di ogni intervento di policy in campo educativo, sia per offrire al management delle istituzioni educative un quadro di conoscenza utile a definire azioni di micropolitica di istituto, perché le tecnologie trasformano le nostre aule solo in funzione di come sappiamo usarle.
di Stefania Capogna
docente di
Sociologia della comunicazione
Comunicazione pubblica e d’impresa

[i] Capogna, S. (2014/b). Scuola, Università, E-learning. Una lettura sociologica. Roma: Armando.
[ii] OCSE (2013). Review of the Italian Strategy for Digital Schools.OECD.
[iii] Tutti i docenti di scuola di ogni ordine e grado possono partecipare alla ricerca collegandosi al seguente link: https://it.surveymonkey.com/r/ricerca-competenze-digitali

venerdì 18 dicembre 2015

Stati d’eccezione e guerra al terrore

Trois mots pour les morts et les vivants, questo il titolo della breve riflessione che il filosofo Etienne Balibar, autore del volume Violence et Civilté (Galilée, 2010), scriveva a pochi giorni dall’attacco alla redazione di Charlie Hebdo (Liberation, 10-11 Janvier 2015). Tre parole che intendevano richiamare gli intellettuali (francesi e non) al loro dovere non solo di prendere parola nel momento del dolore e dello sconcerto collettivo, ma sopratutto di esprimersi senza reticenze o calcoli. E in tal senso intorno a tre temi – comunità, imprudenza, jihad – Balibar riteneva che fosse necessario convogliare lo sforzo collettivo del pensiero critico.
Perché in effetti il dovere, che ricordava il filosofo francese, non deriva da un qualche privilegio elitario, ma, al contrario, dalla specifica funzione sociale degli intellettuali. Ed è proprio in questo che risiede la stringente attualità del contributo di Balibar di 10 mesi fa: per chi – senza reticenza o calcoli – si misura con quei temi non è possibile evitare il rischio del paradosso e delle strettoie.
Se abbiamo, difatti, bisogno di comunità (per elaborare il lutto, per riflettere e per proteggerci), il rischio è che questa si chiuda per escludere, cedendo alla tentazione dello scontro di civiltà a cui proprio i terroristi ci chiamano. E ancor più ambivalente è – come era nel caso della linea editoriale di Charlie Hebdo – l’imprudenza: perché l’imprudenza è il rifiuto radicale di entrare nella logica del terrore; ma d’altro canto è anche indifferenza rispetto alle conseguenze collettive delle nostre provocazioni. Se poi il tentativo è quello di comprendere le implicazioni e le valenze attuali del jihad, il rischio sta nel cedere alla tentazione della semplificazione. In risposta alle riduttive e scellerate argomentazioni degli islamofobi, si è tentati di rispondere con un’altra riduzione: quella che, evidenziando solo l’aspetto pretestuoso e strumentale della dimensione religiosa del terrore jihadista, scoraggia una riflessione teologica interna all’islam che possa, agli occhi dei credenti, recidere gli ancoramenti coranici del jihadismo.
Si cammina, dunque, su un filo di lana che, dopo le stragi di Parigi del 13 novembre, pare sul punto di rompersi. In effetti da Charlie Hebdo al Bataclan, non è scorso solo altro sangue (e non solo a Parigi), ma è anche cambiato radicalmente lo scenario. Rispetto alla strage di gennaio, gli attacchi di novembre hanno realizzato un salto organizzativo dell’Isis, che adombra una vera e propria strategia di guerra sul fronte occidentale. Ma non basta: il filo si tende pericolosamente sotto i nostri piedi non solo sul tema del jihad ma anche su quello della comunità e dell’imprudenza. In effetti la proclamazione dello stato d’emergenza in Francia ha segnato anch’essa uno spartiacque. François Hollande è ricorso a uno dei dispositivi giuridici più controversi e dibattuti dalla fine della quarta Repubblica a oggi, sostenendo soprattutto la necessità di una revisione costituzionale che renda possibile una maggiore durata temporale per lo stato d’eccezione.
Questa possibile modifica non riguarda affatto un aspetto meramente tecnico ma un nodo nevralgico degli equilibri democratici della Repubblica. A dimostrarlo è la storia stessa della legge francese sullo stato d’emergenza che si intreccia strettamente con quella coloniale: approvata nel 1955 per far fronte all’insurrezione algerina, fu successivamente applicata nel 1958 e nel 1961 (sempre nella temperie della guerra d’Algeria), per poi essere riattivata nel 1985 in occasione della sollevazione indipendentista in Nuova Caledonia e, per ultimo, nel 2005 durante le rivolte delle banlieues. In tutte queste occasioni il ricorso a tale dispositivo ha sempre implicato riconoscere la necessità, per la difesa della stessa Repubblica, di istaurare temporaneamente uno regime d’eccezione che sospendesse alcune delle libertà fondamentali garantite dalla costituzione. Infatti il testo della legge, fra le altre cose, dà facoltà alle autorità civili di imporre la chiusura di luoghi pubblici, di decretare il divieto di riunione e assembramento, e di esercitare controllo sulle pubblicazioni, i mezzi di informazione così come sulle proiezioni cinematografiche e le rappresentazioni teatrali. Inoltre, lo stato d’emergenza priva il potere giudiziario di alcune sue prerogative essenziali, attribuendo all’esecutivo la decisione di svolgere perquisizioni e riconoscendo la possibilità di dichiarare competente la giustizia militare.
A uno sguardo superficiale tale dispositivo giuridico sembra duplicare inutilmente lo stato d’assedio, previsto dall’articolo 36 della costituzione. In effetti l’approvazione della legge nel 1955 rispondeva all’esigenza di istaurare uno stato d’eccezione senza dover decretare lo stato d’assedio che appariva, nel contesto della situazione coloniale, politicamente inopportuno: implicava, infatti, riconoscere un’organizzazione militare al nazionalismo algerino e, di conseguenza, ammettere che l’Algeria fosse un territorio di guerra distaccato dalla Francia, laddove invece si trattava di rinsaldare la continuità amministrativa con il territorio metropolitano.
La legge del 1955 faceva, dunque, uscire da questo impasse politico iscrivendo un nuovo stato d’eccezione nel diritto francese che fosse applicabile a qualsiasi porzione del territorio nazionale. In questo modo era possibile aggirare qualsiasi riferimento alla condizione contingente dell’Algeria sebbene la sua prima applicazione riguardò esclusivamente il territorio algerino.
Solo tre anni più tardi però, nel maggio 1958, lo stato d’emergenza fu applicato, per due settimane, in quello metropolitano; un ricorso che mostrava quanto la questione algerina avesse investito il cuore politico stesso del paese: stavolta non erano i nazionalisti algerini a rappresentare la minaccia ma i partigiani dell’Algeria francese dopo il tentato putsch del 13 maggio ad Algeri.
Proprio la situazione algerina fu infatti la causa scatenante della crisi della IV Repubblica, portando alla stesura di una nuova costituzione che dava maggiori poteri al capo dello Stato. Sarà dunque Charles De Gaulle, primo presidente della V Repubblica, a voler riformare nel 1960 le procedure di applicazione della legge del 1955, mantenendo però fra i due dispositivi giuridici una differenza fondamentale: infatti lo stato d’emergenza, al contrario di quello di assedio, accorda poteri straordinari all’esecutivo e non all’esercito.
Così che quando il 22 aprile dell’anno successivo Algeri si risvegliò nelle mani dei militari, il consiglio dei ministri a Parigi decretò immediatamente lo stato d’emergenza sul territorio militare per difendere le istituzioni repubblicane. Si aprì allora la fase più lunga che la Francia abbia mai conosciuto di regime d’eccezione che terminò solo nel maggio del 1963, ben oltre la fine della guerra algerina (marzo 1962) e la proclamazione dell’indipendenza (luglio 1962).
Nel suo lungo e travagliato percorso storico, lo stato di emergenza ha dunque dimostrato la sua duplice natura. Da un lato è chiaramente uno strumento di repressione politica che può essere applicato indiscriminatamente: dal 1958 al 1963 fu infatti applicato contro i nazionalisti algerini come contro i partigiani dell’Algeria francese. Dall’altro lato esso è anche uno strumento di difesa della Repubblica e delle istituzioni democratiche, qualora queste siano minacciate da forze eversive. Tuttavia, anche se si accetta il rischioso paradosso secondo cui per difendere la libertà e necessario – in condizioni estreme – sospenderla, si pone una questione dirimente: quando e in che modo stabilire che le condizioni che giustificano lo stato d’eccezione sono cessate?
La fase aperta nell’aprile del 1961 e chiusa solo nel 1963 mostra infatti come un prolungato stato di eccezione trasformi quest’ultimo in uno dei tanti strumenti del potere esecutivo, motivando dunque una sua banalizzazione.
Ed è la questione che pare destinata a riaprirsi qualora Hollande dia seguito alla riforma costituzionale da lui auspicata che consentirebbe uno stato d’eccezione duraturo e compatibile con le condizioni di una guerra contro il terrore jihadista.
Un Patriot Act alla francese?
Merry Christmas
«Una deputata di Las Vegas (Nevada), Michele Fiore, ha pubblicato sulla sua pagina Facebook una cartolina di auguri di Natale nella quale appare insieme alla sua famiglia. Tutti posano con una maglietta rossa  e con i calzini ai piedi. Un perfetto stile natalizio, se non fosse per le armi impugnate dai protagonisti dell’immagine, compreso uno dei bambini. “Tocca agli americani proteggere l’America – scrive la politica – noi siamo solo una comune famiglia americana. Con amore e libertà, Michele”». Da La Repubblica, 6 dicembre 2012
Forse finirà davvero così, come si augura il post natalizio della deputata statunitense: ognuno di noi si doterà di un’arma di qualche tipo e, se qualche terrorista ci attaccherà, risponderemo subito, uccidendolo. O, ancora meglio, ce ne andremo in giro per strada e, se noteremo un sospetto di terrorismo islamista (che è sospetto lo decideremo noi!), gli spareremo direttamente, evitando così potenziali attacchi.
Un’estremizzazione, naturalmente. O, almeno, speriamo che lo sia. Resta comunque inquietate sapere che un membro del Congresso abbia potuto immaginare questo tipo di auguri di Natale.
A volte, gli Stati Uniti esagerano, si sa. Non molti anni orsono, il Presidente Bush Jr., per prevenire il terrorismo, firmò una legge che limitava la libertà dei cittadini; e che apriva agli orrori di Guantanamo, di Abu Ghraib, delle extraordinary renditions, dei black sites, della tortura legalizzata. Era il notorio Patriot Act, che permetteva di interferire con la privacy controllando comunicazioni telefoniche e telematiche, di accedere ad informazioni contenute, per esempio, nelle cartelle cliniche e nei dati bancari, di prelevare impronte digitali nelle biblioteche, di effettuare perquisizioni ripetute in casa (case di musulmani e arabi?) senza mandato. Le cose andavano assai peggio per i cittadini stranieri (musulmani e arabi?): se sospettati di terrorismo o di attività che mettevano in pericolo la sicurezza degli USA, potevano essere soggetti a detenzione a tempo indeterminato. Certo, si trattava del 2001, l’anno dell’attentato alle Torri Gemelle. Certo, gli Stati Uniti erano presi nella morsa del terrore. Ed il terrore acceca e può ottundere le capacità razionali. Almeno, è comprensibile che questo accada agli individui, mentre dai governanti ci aspetteremmo più sangue freddo e la capacità di non cedere ad istinti vendicativi. E ancora di più dovremmo aspettarcelo da governanti che sbandiero i valori e i diritti occidentali; salvo poi non chiarire quali siano i valori e i diritti occidentali in difesa dei quali dovremmo essere disposti a rinunciare a libertà fondamentali, per entrare in uno stato d’eccezione i cui contorni si dilatano e diventano sempre più imprecisi. Il Patriot act è, difatti, tutt’ora in vigore ed è stato applicato ben oltre la lotta al terrorismo.
Già dopo la strage di Charlie Hebdo, non erano mancati, fra i politici francesi, i sostenitori di un Patriot act “alla francese”. A proporlo non erano state le frange più estreme dell’arco parlamentare d’oltralpe, ma uomini e donne di Stato come Valérie Pécresse, membro del Consiglio di Stato, ex-consigliera di Jacques Chirac e più volte ministra (dei Conti Pubblici e della Riforma dello Stato, 2011-2012; dell’Università e della Ricerca, 2007-2011).
Per questo, dopo gli attacchi a Parigi dello scorso mese, è necessario più che mai dibattere sulle implicazioni degli stati di eccezione, senza eludere l’argomento più controverso: i pericoli che, per la democrazia e i “valori occidentali”, derivano dalla sospensione di libertà fondamentali. Al riguardo, il filosofo Jean Baudrillard scriveva nel 2002: «L’atto repressivo percorre la stessa spirale imprevedibile dell’atto terroristico, nessuno sa dove si fermerà, né i rivolgimenti che ne seguiranno. (…) Ed è questo scatenarsi incontrollabile della reversibilità che segna la vittoria del terrorismo. Vittoria visibile (…) nella recessione del sistema di valori, di tutta l’ideologia di libertà, di libera circolazione ecc., che faceva la fierezza del mondo occidentale, e di cui esso si valeva per esercitare il suo dominio sul resto del mondo» (Lo spirito del terrorismo, Raffaello Cortina Editore 202, pp. 41-2).
Insomma, se per combattere il nemico cambiamo troppo noi stessi, abbiamo perso.
Studi Politici e Internazionali – Link Campus University

mercoledì 15 luglio 2015

L’Italia, la globalizzazione e la sociodinamica dei popoli in movimento

Zur Elektrodynamik bewegter Körper, (L’elettrodinamica dei corpi in movimento) così 110 anni fa si intitolava l’articolo con cui Einstein proponeva al mondo scientifico la Relatività, conosciuta con la formula che è ormai un’icona E=mc2.
L’Italia è l’unica nazione, il cui popolo lava i panni sporchi non in famiglia, ma davanti al mondo.
Ricordate lo scandalo del calcio del 2006, proprio nell’anno dei campionati mondiali, scoppiò, con grandissimo clamore, lo scandalo delle partite di calcio truccate nel campionato di serie A. Il popolo italiano andò in Germania con la testa china, il viso pieno di vergogna e rabbia e nessuna speranza di riscatto, dopo un mese eravamo Campioni del Mondo.
Quest’anno è l’anno dell’EXPO sul cibo, probabilmente uno degli asset migliori di questo popolo, la cucina italiana e il cibo italiano sono senza dubbio (parlo per me) i migliori al mondo, qui non dobbiamo fare nessun campionato, vinciamo di default.
In aggiunta questo Papa che ha davvero l’intenzione di evangelizzare il mondo, cosa fa? Proclama un Giubileo straordinario: il Giubileo della Misericordia! Non fa in tempo a chiudere i battenti l’EXPO a Milano che inizia il Giubileo a Roma.
Un popolo normale, uno Stato normale, avrebbe serrato le fila e mostrato al mondo il meglio di sé in termini organizzativi, di efficienza, ecc. ecc.. Invece no, l’Italia prima scopre le infiltrazioni mafiose negli appalti dell’EXPO, poi il giro di mazzette politiche, quindi il dramma ce la faremo, non ce la faremo, quindi l’EXPO parte ed è un successo, buona l’organizzazione, ottime le presenze insomma confermiamo di essere sul cibo Campioni del Mondo.
Chiuso il dramma EXPO parte Roma con Mafia Capitale, un’indagine che mostra quanto oggi la politica sia permeabile agli interessi economici. L’autonomia della politica dall’economia è la prima delle necessità, altrimenti i politici rischiano di essere sempre e comunque a libro paga di qualcuno, anche senza essere corrotti.
Insomma nel momento in cui Roma più del solito va nel frullatore dei media mondiali, scopriamo con una certa curiosità che «La mucca tu la devi mungere, però gli devi dà da mangià» un principio che chi come me è nato contadino conosce perfettamente, ma probabilmente nessuno aveva mai applicato agli uffici pubblici e alle aziende pubbliche.
Ma nello specifico lo scandalo di Mafia Capitale, non si concentra sugli uffici dell’urbanistica o dei lavori pubblici nei quali da sempre viene concentrato il massimo degli interessi privati, ma sulla gestione degli immigrati e dei rifugiati.
Quindi provo e mettere tutto insieme con una frase sincopata alla J-Ax: Roma, Mafia, Capitale, Immigrati, Giubileo, Misericordia. Un mix incredibile all’interno di un solo bicchiere.
E naturalmente per non farci mancare nulla il problema dei “barconi” che partono dalla Libia diventa inarrestabile, Francia, Germania e Inghilterra ci fanno tutti i giorni lezioni su come dovremmo comportarci, bloccano le frontiere ecc. ecc., il Papa dice che bisogna accogliere tutti, mentre alcuni politici propongono di bombardare i barconi, oppure di “darglie foco” avrebbe detto Buzzi.
Ora viene la domanda: può un Comune completamente frastornato, con consiglieri e assessori indagati e/o arrestati, con una credibilità vicino allo zero, con problemi economici e di bilancio, con una esplicita incapacità di governo, gestire il Giubileo? Marino pensa di farlo mandando la destra nelle fogne, ma il lavoro che aspetta Roma con i due campioni della Misericordia mondiale: Padre Pio e Madre Teresa di Calcutta, solo in termini di gestione della sicurezza e della decenza, è enorme e necessitano di un commissario che abbiamo poteri e risorse umane ed economiche adeguate allo scopo e non sia sottoposto in ogni scelta al voto di un consiglio comunale, che fino ad oggi, diciamo la verità non ha brillato per le scelte che ha fatto.
Se chiudiamo gli occhi e immaginiamo il mondo, vedremmo popoli interi che per motivi economici, umanitari o culturali, si spostano. Infatti sono oltre 600 milioni i cittadini che si spostano solo per turismo, una massa enorme come mezza popolazione indiana o come tutti i cittadini europei. In Italia arrivano 48 milioni di turisti e qualche centinaio di migliaia di migranti e rifugiati. Per l’EXPO 10 milioni verranno dall’estero, forse più per il Giubileo.
Questa sociodinamica, mai registrata nel passato in queste dimensioni, sta cambiando il inaspettatamente il mondo relativizzando il concetto di Stato e di nazione, non quella di popolo. Anzi i popoli tendono a resistere.
L’interconnessione di Internet e quella fisica di aerei, navi e treni, cancella più velocemente di quello che si pensasse i confini fisici e modifica quelli culturali.
L’ISIS è un’espressione di resistenza estrema alla relativizzazione dei confini culturali.
La firma del TTIP può rallentare l’erosione della cultura occidentale.
L’Italia che è un territorio occupato da un popolo che non ha grande stima dello Stato, né un grande senso nazionale, e che non ha mai pensato di essere il popolo migliore del mondo, è utile che continui a lavare i panni in pubblico, la sua famiglia è questa, da sempre nel bello del Rinascimento e nel brutto di mafia capitale, e in questo cambiamento ha qualche asset in più. Siamo come sempre i campioni del mondo anche se non lo riconosciamo. Andremmo esposti al Museo di Sevres come unità di misura della Cultura.
di Pasquale Russo

mercoledì 1 luglio 2015

L’Università e la sfida della “terza missione”. Discussione aperta alla Link Campus University

Storicamente le università sono nate e si sono istituzionalizzate per diffondere l’alta formazione e formare la classe dirigente. In breve, a questo obiettivo primario se ne è aggiunto un secondo, quello della ricerca orientata alla scoperta. Sotto la spinta dell’università di massa, e una logica organizzativa ispirata al modello taylorfordista, didattica e ricerca hanno teso sempre più a separarsi, affermandosi come due distinte missioni universitarie piuttosto che come un’unica e articolata strategia finalizzata alla promozione della cultura scientifica. Dal nucleo originario di università-comunità di stampo medioevale si è passati, quasi senza rendersene conto, a un modello di università intesa come istituzione trasmissiva che trova la sua massima perversione nel rischio “esamificio”. L’effetto non voluto di questo cambiamento, intervenuto sotto la spinta dei tempi, si può riscontrare nell’inflazione dei titoli di studio e nel mismacht occupazionale denunciato quotidianamente da ogni ricognizione sullo stato dell’università. A ciò si accompagna, spesso, un’immagine distorta della formazione intesa come prodotto di consumo e parcheggio temporaneo piuttosto che come processo di sviluppo integrale della persona.
Alla fine degli anni ’90 ha cominiciato a diffondersi un vasto movimento di idee che attribuisce all’Università un ruolo di partecipazione allo sviluppo economico locale, nazionale e globale, a partire da una più stretta relazione tra didattica, ricerca e sistema economico-produttivo. Questa rinnovata prospettiva critica, che va sotto la generica etichetta di “terza missione”, riconosce all’università il ruolo di attore di sviluppo locale, attraverso la diffusione della cultura scientifica e tecnologica e una strategia integrata dove didattica, ricerca e diffusione convergono in un unico progetto di sviluppo. In linea generale, con il concetto di III missione universitaria s’intende la promozione di interventi che siano capaci di favorire la diffusione dei risultati dell’attività di ricerca affinché questi contribuiscano allo sviluppo socio-economico del territorio in una chiave locale e nazionale. Pur in assenza di una visione di sistema e di una linea d’indirizzo definita, si può notare nei provvedimenti normativi degli ultimi quindici anni – ispirati a una logica di decentramento e semplificazione amministrativa (L. 59/97, L. 196/97, L. 341/1990, L. 30/2001, L. 240/2010 ecc.) – una pressione crescente verso un ruolo di intermediazione e attivazione delle università. Ancora oggi il concetto di terza missione universitaria si presenta quanto mai complesso da definire ma è ormai entrato nel lessico comune anche grazie agli sforzi avviati su questo tema dall’ANVUR con la costituzione di gruppi di lavoro dedicati alla definizione di parametri e standard condivisi per la realizzazione dei processi valutativi sull’operato delle università, ivi comprese le attività che rientrano nella III missione.
Questo cambiamento di paradigma, tuttavia, richiede una radicale metamorfosi dell’Accademia. Non più un’università “chiusa nei suoi confini, “una torre d’avorio”, auto-legittimata e incurante delle ricadute del suo operato sul più ampio sistema socio-economico “glocale” ma un’università capace di innescare meccanismi virtuosi. Un motore di sviluppo capace di integrare saperi, prospettive e competenze in ragione del fatto che nella società postmoderna l’innovazione si produce negli interstizi di confine tra ambiti diversi, e richiama l’interconnessione di sistemi storicamente tra loro distinti e non comunicanti: educazione (istruzione e formazione); ricerca e innovazione. Il tipo d’interventi e la relativa modalità di gestione di tutte le attività che possono rientrare sotto la generica etichetta di III missione (comunicazione istituzionale, orientamento, placement, ricerca, start up, spin off, brevetti, progettazione, consulenze, commesse, ecc.), tuttavia, è cosa quanto mai complessa e si possono rintracciare diverse e interessanti esperienze all’estero, accomunate dall’idea di università imprenditoriale. Con il concetto di università imprenditoriale si fa riferimento al modello della “tripla elica” che il prof. Henry Etzkowitz, Presidente della Triple Helix Association e dell’International Triple Helix Institute ha presentato recentemente in un seminario presso la Link Campus University. Questo modello si basa sull’idea che è possibile promuovere ambienti innovativi e culturalmente vivaci là dove governo, università e imprese assumono responsabilmente il proprio ruolo all’interno della società attraverso processi di co-evoluzione. Nella società della conoscenza, dove il volano dell’innovazione e dello sviluppo è dato proprio dal valore dell’informazione, l’università, in quanto culla della produzione e diffusione di nuova conoscenza, diviene una risorsa strategica. L’esempio più famoso e riuscito al mondo è certamente quello della Silicon Valley dove coesiste una relazione di reciproco interesse tra università e sistema socio-economico.
In questo nuovo quadro di opportunità l’università è chiamata a definire il proprio modello di III missione che intende perseguire in relazione al contesto di riferimento e al modo in cui intende tradurre in pratica la propria mission per affermarsi come attore di sviluppo locale. Il territorio, lungi dall’essere solo un bacino di potenziali iscritti, può divernire luogo di scambi complessi e articolati con altri sistemi e sottosistemi che, seppure non è possibile controllare completamente, si possono interpretare come opportunità. In una prospettiva di questo tipo la terza missione considera il trasferimento tecnologico come aspetto di un contesto più esteso dato dal network territoriale e dalla sua capacità di governare la diffusione degli esiti della ricerca scientifica e tecnologica mediante una serie di attività composite volte a intercettare i bisogni emergenti e le opportunità di intervento. Per questa via, l’università diventa un polo di sviluppo e di empowerment territoriale e di comunità, dove acquisistono rilevanza i meccanismi di cooperazione che spingono gli attori sociali (individui e organizzazioni) ad auto-organizzarsi per agire attivamente nella “ragnatela” della complessità sistemica attivando circoli virtuoli dal basso. L’università viene così ad assumere una funzione sociale di emancipazione collettiva che punta sulla partecipazione attiva e responsabile dei soggetti e del mondo economico produttivo. Il riconoscimento della funzione culturale e sociale dell’università può essere meglio espresso dal concetto di “università empowering” che supera, incorporandone gli aspetti positivi, quello di università imprenditoriale, troppo schiacciato sugli aspetti economicisti e di breve durata connessi alla complessa funzione di III missione universitaria.

di Stefania Capogna
CdS in DAMS e Comunicazione digitale, Dipartimento DASIC

mercoledì 24 giugno 2015

Il Cavallino Rampante battuto dal mattoncino colorato

Agli sportivi appassionati di Formula 1 negli ultimi anni sta regalando più delusioni che gioie, ma per gli amanti dei motori su strada il Cavallino rampante resta sempre il sogno più affascinante da rincorrere?
Dopo due anni di dominio della classifica stilata dall’istituto inglese Brand-Finance, la Ferrari si posiziona solo in nona posizione, cedendo il passo al mattoncino Lego, che si gode il riconoscimento di marchio più influente del mondo quasi come un’araba fenice. Dopo aver sfiorato il fallimento infatti, la fabbrica danese di mattoncini di plastica colorata con a capo J.V. Knudstorp, CEO 34enne, risale la china grazie alla decisione di ritornare alle origini: la politica di focalizzazione e recupero del core business della società e la sponsorizzazione attraverso il recente film d’animazione 3D “Lego Movie”, si sono dimostrate vincenti, anche nella riconquista della riconoscibilità ed influenza del marchio.
La storia del brand Ferrari. Il Cavallino Rampante nero in campo giallo, con in basso le lettere “SF” per Scuderia Ferrari, con tre strisce, una verde, una bianca e una rossa, colori nazionali italiani, in alto è il logo della Ferrari.
Simbolo di coraggio e temerarietà, era originariamente l’emblema personale del Maggiore Francesco Baracca, che lo faceva dipingere sulle fiancate dei suoi velivoli. Il 17 giugno 1923 – quando Enzo Ferrari vinse la prima edizione del Gran premio del Circuito del Savio – la contessa Paolina madre dell’aviatore, gli propose di utilizzare questo simbolo sulle sue macchine, sostenendo che avrebbe portato fortuna. La prima corsa nella quale l’Alfa permise a Ferrari di utilizzare il cavallino sulle macchine della scuderia, la “24 ore di Spa” del 1932, fu vinta. Da allora il matrimonio divenne indissolubile. Nel 1945 Ferrari fece ridisegnare un nuovo cavallino rampante da Eligio Gerosa, uno tra i più apprezzati incisori del secolo scorso. Nel progetto ampiamente modificato rispetto al disegno originario, venne aggiunto lo sfondo giallo, che rappresenta uno dei colori di Modena. Nel 1947 sempre Gerosa disegnò il logo ufficiale della scuderia con un cavallino più snello, riproporzionato nelle dimensioni e con lo zoccolo che sovrasta la barretta allungata della “F”.
Da culto a culto. «Il Cavallino rampante su sfondo giallo è immediatamente riconoscibile in tutto il mondo. Anche dove non ci sono ancora strade. Resta un marchio molto influente ma il suo potere sta diminuendo perché sono diversi anni che non vince un titolo di Formula 1, nonostante la crescita del valore del brand del 18% – spiega Brand-Finance – La nuova strategia di capitalizzare sul brand farà sicuramente salire il valore nel breve termine, ma un eccessivo sfruttamento rischia di lasciare danni duraturi».
Con questa motivazione viene spiegato il perché della discesa nel piazzamento in classifica della Ferrari. In una classifica in cui contano parametri quantitativi, ma soprattutto parametri qualitativi come la fiducia dei consumatori, la desiderabilità, la simpatia suscitata, è Lego seguita da PWC e ironia della sorte proprio da Red Bull, a sbaragliare la concorrenza di colossi multinazionali. Concorrenza che invece subisce se si guarda al valore del marchio, dove è il settore delle telecomunicazioni e dell’industria IT, a farla da padrone: Apple si aggiudica il gradino più alto del podio di questa graduatoria, seguita da Samsung, Google, Microsoft e Verizon.
Consumatore-sognatore? Nel cambiamento al vertice di questa classifica, sembra però confermata una tendenza: le lunghe code per acciuffare l’ultimo modello di IPhone o Samsung Galaxy, non sono sufficienti per permettere ad Apple e Samsung di figurare nella top ten dei marchi più forti. Segno che nonostante le evoluzioni high-tech e i cambiamenti delle classifiche, per fortuna preferiamo ancora subire il fascino di una Rossa o volare con la fantasia e sognare di costruire nuovi mondi coi mattoncini colorati del falegname Ole Kirk Christiansen.
«Perché – come Enzo Ferrari insegna – sono i sogni a far vivere l’uomo».

Periscope: l’evoluzione del social

In principio fu IRC, poi vennero Skype, Myspace, Twitter, Facebook e, infine, Periscope. Ormai da quel lontano 1988, lontano qualche anno in termini temporali ma lontano ere dal punto di vista informatico, si sono susseguiti miriadi di software, di cui quelli elencati sono solo le milestone di questo cammino, capaci di soddisfare la naturale esigenza delle persone di comunicare e condividere. Col tempo, però, questa esigenza si è trasformata e, in molti casi, è diventata smania di protagonismo, voglia di apparire, voglia di mostrarsi e mostrare quanto è interessante la propria vita.
Questo è stato però il motore dell’evoluzione dei software che, da semplici scambiatori di messaggi, sono diventati veri e propri mezzi per conquistare la popolarità e l’ammirazione di tutti sfruttando le tante occasioni che si presentano quotidianamente.
«In the future everyone will be world-famous for 15 minutes», che, in italiano, vuol dire «in futuro ognuno sarà famoso al mondo per 15 minuti». Probabilmente, oggi si è avverato quello che Andy Warhol aveva detto come provocazione ma che probabilmente non credeva che un giorno si realizzasse per davvero.
Periscope, ma anche Meerkat e, ultimamente, l’italiano Streamago Social, sono diventati il mezzo attraverso cui diventare famosi. Oggi, tutti possono prendere il proprio cellulare e proiettare ciò che gli capita intorno e sperare che venga visto non solo dai propri amici ma anche dal resto del mondo. Non è che sia una grande innovazione dal punto di vista tecnologico, anche prima c’erano software in grado di realizzare tutto ciò. La vera innovazione sta nella semplicità d’uso, nella possibilità di “streamare” in tempo reale, nessun vincolo tra il produttore ed il consumatore, controlli non sempre efficaci, la possibilità di interagire durante lo streaming. Ed allora, si moltiplicano i video di gatti che fanno cose strane, di persone che non hanno voglia di fare colazione da sole e mettono il cellulare sul tavolo per avere compagnia dagli utenti, o di professori che vengono ripresi durante la lezione a loro insaputa. Ma, a parte questi contenuti che possono sembrare banali o, a volte, surreali, ce ne sono altri che sono dei veri e propri esperimenti sociali, così come quello avvenuto ad Arezzo dove una persona ha trasmesso in streaming un’operazione chirurgica. Non mancano nemmeno le apparizioni della politica, per esempio, il discorso di Renzi al partito è stato trasmesso online, oppure il senatore americano Bernie Sanders ha annunciato la propria corsa per le presidenziali tramite Periscope.
Di fronte a questa ultima frontiera della condivisione, in cui tutti possono essere parte della vita di altri e interagire con essa, eliminando definitivamente i concetti di distanza spaziale e di conoscenza, corriamo però il rischio, talvolta inconsapevolmente, di superare certi limiti.
Alcune settimane orsono, il garante della privacy è stato interpellato da Telefono Azzurro per verificare se la privacy dei bambini è tutelata correttamente. In particolare, l’attenzione del garante è stata richiamata, a seguito di numerose segnalazioni, riguardo a streaming pubblicati su Periscope che riprendevano, a loro insaputa e quindi senza autorizzazione, bambini in luoghi come scuole, strade o parchi. Per tale motivo, Telefono Azzurro ha richiamato l’attenzione dell’ente per regolamentare l’utilizzo della nuova piattaforma di Twitter.
Un altro problema si è reso palese pochi giorni fa quando ha avuto luogo il cosiddetto “match del secolo” tra i due pugili Pacquiao e Mayweather. I diritti dell’incontro erano stati acquisiti dalla HBO e dalla Showtime per essere trasmesso sui loro rispettivi canali criptati. La stessa sera, l’incontro era contestualmente visibile, oltre che sui canali che detenevano i diritti, anche su decine di streaming sull’app di Twitter e in modalità gratuita. La stessa Twitter è dovuta intervenire forzando la chiusura di quanti più stream possibili. Tuttavia, al di là del singolo caso, nasce un grosso problema di violazione dei diritti e di un controllo quasi impossibile.
Il potenziale di questo nuovo strumento è evidente: dalla democrazia partecipativa allo sviluppo di nuove tecniche di social marketing, dal controllo del territorio distribuito alla diffusione della conoscenza. Tuttavia, tutto questo ha un prezzo che però non per forza deve essere pagato sull’altare della libertà.
In questo contesto è indispensabile che gli utenti prendano una maggiore consapevolezza dei nuovi servizi, comprendendo in primo luogo, le loro potenzialità lesive, soprattutto in termini di diritti personali, e quindi delle conseguenze a cui vanno incontro. Non di menò però, si deve ledere il diritto all’informazione, soprattutto in un paese che è pervaso da un diffuso malaffare. La sfida in questo periodo è trovare il giusto tradeoff tra i due diritti e conciliare le esigenze dei vari settori.

giovedì 21 maggio 2015

Islam Radicale, valori occidentali, finanza e nuovi assetti geopolitici

Lo scorso 28 Aprile, nella Sala della Biblioteca della Link Campus Univesity, si è svolto il seminario di studi “Islam Radicale, valori occidentali, finanza e nuovi assetti geopolitici”, organizzato in collaborazione con ISGAP (Institute for the study of global antisemitism and policy) e CEMAS (Centro di ricerca dell’Università Sapienza di Roma “Cooperazione con l’Eurasia, Mediterraneo e Africa Sub-sahariana”). All’evento, moderato da Gabriele Natalizia (Link Campus University), hanno partecipato Vincenzo Scotti (Link Campus University), Robert Hassan (ISGAP) e Gianluca Ansalone (Link Campus University).

In un mondo sempre più sconvolto dalla minaccia del radicalismo islamico, gli illustri relatori,                              hanno esaminato i fattori culturali, economici e sociali del fenomeno. Dopo la breve introduzione del professor Natalizia, che ci ha ricordato come già venti anni fa Samuel Huntington, nel suo famoso articolo comparso sul Foreign Affairs (The Clash of Civilizations?), affermava che i momenti unipolari nel sistema internazionale in realtà durino poco, perché ad ogni concentrazione di potere a livello globale, una nuova potenza cercherà di controbilanciare tale dominio opponendosi alla potenza egemone. La tesi di Huntington si contrapponeva a quella di Francis Fukuyama, quest’ultimo noto per aver considerato la fine della storia, in un mondo che si stava lentamente appiattendo verso valori occidentali, senza un’alternativa, con il dominio incontrastato degli Usa. Ma nuove forze “controbilancianti”, per Huntington sarebbero presto emerse, e se non a livello globale, per lo meno a livello regionale. Nuove forze con forme politiche influenzate dalla religione. Uno scontro di civiltà per l’appunto, con una forma “politicizzata” dell’islam, destinata a scontrarsi con l’altro modello, quello occidentale, basato sulla democrazia.

Il presidente della Link Campus University, Vincenzo Scotti, ha sottolineato come il problema sia stato la sopravvalutazione delle primavere arabe, che anziché essere la soluzione alle crisi dei regimi nei paesi del Grande Medio Oriente, sono diventate rapidamente fattore d’instabilità per l’intera regione con conseguenze che ancora oggi sono sotto gli occhi di tutti. L’errore di valutazione più grande dell’occidente, è stato pensare che dopo anni di regime, la situazione potesse tornare stabile nel giro di pochi mesi senza appoggio esterno, e che le elezioni democratiche potessero definitivamente risolvere le secolari contrapposizioni tra i vari gruppi di potere all’interno di ogni singolo Stato.

Il direttore italiano dell’ ISGAP (Institute for the study of global antisemitism and policy), Robert Hassan, fa notare come l’antisemitismo, storicamente, anticipi i tentativi di globalizzazione. Sviluppando il suo pensiero, Hassan, definisce l’insieme di complessità e conflitti una relazione tra due modalità: globalizzazione ed ecumene. Due scelte alternative, una sconfigge l’altra. La globalizzazione è scelta e ricerca di un comportamento uniforme. L’ecumene invece è la casa comune. Una casa che tuttavia è accessibile solo a coloro che si richiamano a determinati valori, dove si decide chi fare entrare e chi lasciare fuori. Ogni azione rivolta a risolvere un conflitto, comporta sempre una scelta tra globalizzazione ed ecumene. Nella globalizzazione, i conflitti vengono risolti uniformando le soluzioni da essa perseguite su tutto il globo, anche ricorrendo se necessario alla violenza. L’Islam radicale in particolare, è un nuovo tentativo di globalizzazione. Nell’ecumene invece, le soluzioni sono differenziate di volta in volta. L’ecumene è una scelta. La scelta con chi determinare una coalizione, per sconfiggere chi ha obbiettivi di globalizzazione. La globalizzazione dal punto di vista dell’informazione e della comunicazione, richiede una grande potenza tecnologica, l’ecumene invece richiede capacità di analisi. Per entrambi è indispensabile la conoscenza degli attori internazionali. Nell’ecumene i risultati sono incerti, variabili e temporanei. Per riassumere, la scelta di politiche nei sistemi complessi, possono essere scelte di compressione per ottenere un più ampio consenso, oppure scelte di coalizione, basate sulla qualità degli interessi che sono contrari alla visione globale. Quindi, l’obbiettivo della coalizione è a tempo, perché formata da diversi soggetti che hanno come unico nemico, chi cerca di imporre la propria visione globale.

Il professor Gianluca Ansalone, inizia il suo intervento interrogandosi sul perché l’occidente sia oggi più spaventato in un mondo che è paradossalmente più sicuro, longevo e prospero. A suo avviso, lo siamo perché mai prima d’ora c’era stata nella storia dell’umanità, una serie di cambiamenti nel sistema internazionale così importanti, concentrati in un arco di tempo relativamente breve.
Nel 2001 l’attacco alle Torri Gemelle, evento che smentisce palesemente la tesi di Fukuyama. Dopo quel drammatico evento, l’occidente ha recuperato, oltre alla dimensione storica, anche la dimensione geografica. Quella della fine della geografia si è rivelata una semplice illusione, che ci eravamo autoimposti dopo la fine della guerra fredda. In un secolo, il numero degli Stati è infatti raddoppiato. Nella seconda parte del suo intervento, il professor Ansalone ricorda come la geopolitica non sia diversa dalle altre discipline scientifiche. La geopolitica, non è una semplice interpretazione di fatti, ma ha anch’essa le sue regole fisse. La regola più importante da ricordare, è che in geopolitica i vuoti non esistono, e vengono sistematicamente riempiti da qualcuno o da qualcosa. Il vuoto che si è creato al confine tra Siria, Giordania e Iraq, ad esempio, è stato riempito temporaneamente dallo Stato Islamico. Il successo dell’Isis, è dovuto alla sciagurata condotta di una parte della leadership americana. Si pensi ad esempio a Paul Bremer, che George W. Bush nominò come Inviato Presidenziale in Iraq. Bremer, estromise immediatamente dalla scena politica del paese, il Baath (Partito Arabo Socialista) e con esso tutti gli uomini più influenti che vi appartenevano, lasciandoli di fatto fuori dalla gestione piramidale del potere, oltre che senza un lavoro. Oggi, molti di questi uomini militano nell’Isis e hanno ruoli influenti all’interno del Califfato. Il professor Ansalone, nella parte conclusiva del suo intervento, ha inoltre ricordato come il principale nemico dell’Isis siano gli sciiti. Subito dopo vengono i miscredenti cristiani. Non troviamo quindi, nella propaganda dello Stato Islamico, alcun riferimento nei confronti di Israele. Tutti i conflitti a cui oggi noi stiamo assistendo, possono essere interpretati come una guerra per procura tra le due grandi sensibilità dell’Islam, rappresentate dall’Iran (sciiti) e dall’Arabia Saudita (salafiti).
di Piero De Luca

mercoledì 20 maggio 2015

Xenofobia e conflitti nel Sudafrica del post-apartheid

                                                                                                                 "We, the People of South Africa,
declare for all our country and the world to know:
that South Africa belongs to all who live in it"
Freedom Charter, 1955.

Lo scorso 14 aprile, la polizia sudafricana ha tratto un bilancio di sette morti a seguito della recente esplosione di violenza xenofoba che ha raggiunto il centro di Durban, mettendolo a ferro e a fuoco. Se questa città portuale del KwaZulu-Natal conta il numero di vittime più alto (ben cinque), nella stessa regione non è stata risparmiata neanche Pietermaritzburg, mentre Umlazi, KwaMashu e Isipingo sono stati teatro di attacchi particolarmente virulenti. La dinamica è ovunque la stessa: nella miseria delle township i migranti sono cacciati dalle loro abitazioni, le loro piccole attività commerciali saccheggiate e date alle fiamme. Le stime dei danni sono approssimative e gli sfollati si contano nell’ordine delle centinaia. Nessun dato è disponibile sugli stupri che pure si sono verificati.
Pochi giorni prima che la furia si scatenasse, Goodwill Zwelithini, che detiene la carica onorifica di re zulu, aveva pubblicamente richiesto ai migranti di abbandonare il paese. A fargli da eco era stata un’esternazione del tutto simile di Edward Zuma (figlio del presidente) che, senza indietreggiare, ha rincarato la dose quando ancora i disordini non erano del tutto cessati, dichiarando: «non smetterò di dire la verità […] Questa gente deve tornare alle proprie comunità» (City Press, 14/04/2015: http://www.citypress.co.za/news/foreigners-do-as-they-please-in-sa-edward-zuma/).
Ma chi è questa “gente” che dovrebbe tornare da dove viene? Sono africani neri e sono poveri come i perpetratori materiali delle violenze. Ma, a differenza di questi ultimi, sono amakwerekwere: quelli che parlano una lingua incomprensibile ­– i barbari, se volessimo trovare un’analogia con l’etimologia di questa parola italiana.
Gli amakwerekwere incarnano tutti i mali delle township e, come capri espiatori, su di loro ricade la colpa della disoccupazione dilagante, dei salari da fame, della mancanza cronica di abitazioni, della criminalità diffusa, delle violenze sessuali, del propagarsi dell’HIV.
Ma gli amakwerekwere non sono tutti uguali. Secondo una graduatoria dell’indesiderabilità, gli zimbabwesi e i mozambicani sono peggiori dei migranti del Lesotho e dello Swaziland ma comunque migliori dei somali e degli etiopi.
Questa forma di xenofobia si connota per il fatto di contrapporre neri (sudafricani) poveri a neri (africani) poveri, ma soprattutto per il fatto che pare costituire un elemento di discontinuità rispetto al periodo dell’apartheid, quando i migranti erano integrati nelle township, prendendo parte attivamente alle lotte di liberazione, e i perseguitati in fuga dal regime razzista sudafricano erano accolti e sostenuti in altri paesi africani.
Eppure la storia passata di sofferenza e solidarietà non sembra andata del tutto perduta: il 16 aprile centinai di persone dalle township di Durban sono scese in strada per dichiarare il proprio sdegno contro gli attacchi xenofobi, mentre simili manifestazioni hanno avuto luogo anche a Johannesburg.
Nonostante ciò, si può a buon diritto parlare di una violenza xenofoba del post-apartheid; cioè, di una xenofobia che caratterizza la fase apertasi all’inizio degli anni Novanta e che prosegue – in una forma decisamente deteriore – “l’insularità”, quale peculiarità della storia moderna di questo paese: il Sudafrica come eccezione africana, la sua storica diversità che oggi pare tradursi in senso di estraneità rispetto al resto del continente.
In effetti la cruenza dei fatti appena trascorsi non è un unicum. Il post-appartheid è costellato da periodiche azioni di violenza collettiva contro i migranti, come quelle verificatesi solo a gennaio scorso a Soweto (Johannesburg), la più grande township del paese, sino ad arrivare più a ritroso nel tempo al progrom del 1994, noto con il nome di «buyelekhaya» («tornatevene a casa»).
Ma il bilancio più pesante spetta al maggio 2008 con almeno 62 morti, 35 mila sfollati, migliaia di persone in marcia verso le frontiere (26 mila solo quelle che attraversarono i confini con lo Zimbabwe). Nel maggio di sette anni fa tutto ebbe inizio ad Alexandra, township alle porte di Johannesburg, quando una folla fece irruzione in una fabbrica per aggredire i migranti zimbabwesi che vi avevano trovato un’abitazione di fortuna. Rapidamente le violenze si estesero alle altre township di Johannesburg, raggiungendo anche Soweto, ed espandendosi a tutta l’area dell’East Rand. Fu quindi il turno del KwaZulu-Natal e del Mpumalanga sino a che otto delle nove regioni sudafricane furono toccate dalle violenze. La stessa Città del Capo ne fu teatro.
L’esplosione del 2008 coincise con l’impennata dei prezzi dei generi alimentari, che segnò il principio della crisi mondiale. Questa, nel contesto sudafricano, si sommava alle attese frustrate di un nuovo ordine che prometteva, con la fine del regime, non solo di riconoscere i diritti formali ma di ridistribuire le immense ricchezze di un paese in forte crescita. Un crescita gravida di contraddizioni: secondo il Food Security Unit Network dell’Università di Città del Capo, attualmente più di 12 milioni di persone vivono in una situazione di “insicurezza alimentare”; vanno, cioè, a dormire affamati senza avere la certezza di poter soddisfare i proprio bisogni alimentari il giorno seguente. Un dato confermato dalle stime del Department of Agriculture, Forestries and Fisheries, che suona tanto più inquietante se si considera come il Sudafrica si contraddistingua su scala mondiale per le tecnologie agricole all’avanguardia e per il surplus della produzione alimentare. La crescita economica del post-apartheid ha, inoltre, attratto nuovi e più consistenti flussi migratori, con una popolazione migrante attualmente stimata intorno ai 5 milioni, su un numero di abitanti complessivi di circa 54 milioni di persone.
Tuttavia la coincidenza dei due fenomeni ­– sperequazione in contesto di crescita economica e aumento dei flussi migratori internazionali – non è di per sé sufficiente a spiegare odio e violenza contro i migranti. È solo, infatti, grazie ad un elemento ideologico che gli amakwerekwere sono stati trasformati in capri espiatori dei mali delle township.
Al riguardo, Achille Membe ha osservato come a suo avviso la differenza fra i progrom del 2008 e quello dello scorso aprile risiede proprio nell’emergere «dei rudimenti di un’ideologia»; cioè, di un discorso che incita e giustifica i progrom (Africa is A country, 16/04/2015: http://africasacountry.com/achille-mbembe-writes-about-xenophobic-south-africa/).  
In tale ottica il filosofo camerunense interpreta anche le nuove norme del 2014 in materia di immigrazione che apportano modifiche significative all’Immigration Act del 2002. La nuova legislazione sembrerebbe rendere più incerta la situazione dei migranti con permesso di soggiorno, sottoponendoli al rischio permanente di scivolare nell’irregolarità.
A ben vedere, tuttavia, la presenza di un discorso pubblico a carattere marcatamente ideologico sul fenomeno migratorio è già presente in una fase precedente rispetto a quella indicata da Mbembe. Questo pare emergere dall’indagine del Samp (South African Migration Project) che ha monitorato la stampa sudafricana fra il 2002 e il 2004. L’analisi dei dati ha in effetti mostrato come la copertura mediatica del fenomeno migratorio non fornisca adeguata informazione rispetto a un processo tanto complesso quanto diversificato. Ma non solo: la pubblicistica sull’argomento pare configurarsi nel suo insieme come una vera e propria campagna anti-immigrati, per l’insistenza di stereotipi negativi associati a categorie sociali indeterminate e imprecise.
È tuttavia vero che xenofobia e tribalismo sembrano, dalla crisi del 2008 in avanti, aver permeato sempre più in profondità anche il discorso politico. L’intensificarsi dell’uso strumentale del tema migratorio è andato di pari passo con l’emergere di una conflittualità radicale, diretta espressione delle contraddizioni dell’economia sudafricana.
Quello trascorso è stato in tal senso un vero e proprio anno caldo, con ondate di scioperi e manifestazioni che hanno interessato settori economici strategici con rivendicazioni mai così avanzate da parte dei lavoratori. Dal 23 gennaio 2014, dopo il fallimento delle trattative sindacali, hanno avuto inizio 5 mesi continuativi di scioperi per i minatori dell’industria estrattiva del platino.
Ad incrociare le braccia sono stati tra i 70 mila e gli 80 mila minatori che hanno bloccato il 40 per cento della produzione mondiale di platino, in un paese che detiene più dell’80 per cento delle riserve mondiali. Secondo lo Stats SA (Statistics South Africa) la produzione di questo minerale ha registrato, nei mesi dello sciopero, una caduta che non si era mai verificata negli ultimi 47 anni. A giugno i minatori sono riusciti a strappare un aumento salariale di mille rand mensili.
A luglio è stato poi il turno del settore metallurgico e siderurgico, anche in questo caso con richieste di migliori condizioni salariali (12 per cento d’aumento) e eliminazione del caporalato. Lo sciopero nazionale ha riguardato industrie di piccola, media e grande dimensione con più di 220 mila lavoratori coinvolti e forti ripercussioni sull’intera produzione manifatturiera. L’impatto maggiore si è avuto nella regione del Capo Orientale dove risiedono le più grandi industrie del settore, con adesioni significative anche nel Capo Occidentale, nel KwaZulu-Natal e nel Gauteng. Proteste si sono verificate anche alla Eskom, la compagnia elettrica statale, dove sono vietati gli scioperi in quanto fornitrice di “servizi essenziali”.
A guidare gli scioperi e le manifestazioni, che hanno avuto luogo a Johannesburg, Durban, East London, Port Elizabeth e Città del Capo, è stato il Numsa (National Union of Metalworkers of South Africa): il sindacato dei metalmeccanici che nel dicembre del 2013 ha rifiutato di appoggiare, per le elezioni nazionali del maggio successivo, l’African National Congress, partito che è alla guida del paese dalla fine del regime.
La rottura del Numsa (poi espulso nel novembre 2014 dal Cosatu – la maggiore confederazione sindacale, legata all’Anc) rivela la crisi di credibilità dell’Anc un tempo guidato da Mandela.
A motivare questa crisi non sono solo gli scandali legati alla corruzione e l’approfondirsi delle contraddizioni socio-economiche nel post-apartheid. In effetti un vero e proprio spartiacque, che ha contribuito a incrinare il legame fra lavoratori neri e Anc, è la data del 16 agosto 2012, quando la polizia ha sparato su una folla di minatori in sciopero a Marikana, uccidendone 34.
Il massacro di Marikana è il più noto episodio di violenza agita dalla forza pubblica contro civili nel post-apartheid, con un bilancio di morte che non si registrava dal 1960. Ma non è l’unico: va ad esempio ricordata anche l’uccisione di 4 persone a Mothuland il 13 gennaio 2014 durante una manifestazione contro la cronica mancanza d’acqua. Una questione particolarmente grave in tutta la municipalità del Madibeng (A ovest di Pretoria), dovuta allo sfruttamento intensivo delle risorse idriche da parte delle miniere e alla cattiva manutenzione delle reti da parte degli amministratori politici locali.
La violenza contro i migranti si radica dunque nel contesto fortemente dinamico e in trasformazione del post-apartheid, connotato da crescente disuguaglianza, radicalizzazione della conflittualità sociale e crisi di credibilità della classe dirigente. I fatti di metà aprile interrogano, in tal senso, sul futuro della rainbow nation, profetizzata da Desmond Tutu: il post-apartheid manterrà la sua promessa di emancipazione per l’Africa intera o scivolerà nella spirale dell’odio?

Generazione Proteo: una corsa a ostacoli. La ricetta per vincere? Velocità, agilità e ritmo

Nell’immaginario collettivo l’atletica leggera – disciplina simbolo del panorama olimpico al punto da essere comunemente definita “la Regina dei Giochi” – viene normalmente associata all’immagine dello sprinter, e il concetto stesso di “fuoriclasse” tende a riferirsi, in primis, a chi trionfa nella velocità: da Carl Lewis a Linford Christie, da Jesse Owens a Usain Bolt, passando per Fanny Blanckers-Koen e Florence Griffith-Joyner.
Eppure l’atletica leggera è una disciplina composta da tante e diverse specialità – dai lanci ai salti, dal fondo alle prove multiple –, ciascuna delle quali richiede all’atleta di possedere qualità diverse (ma non meno importanti) rispetto a quanto richiesto ai velocisti puri. Per chi si cimenta nella corsa a ostacoli, in particolare, tre sono i talenti necessari: certamente velocità, perché le gare a ostacoli si svolgono normalmente su distanze brevi, ma anche agilità per superare le barriere e ritmo, indispensabile a non perdere il filo della corsa.
Velocità, agilità e ritmo sono anche le principali caratteristiche che – stando a quanto emerge dal 3° Rapporto Generazione Proteo, presentato questa mattina presso l’Auditorium della Link Campus University, l’Ateneo che, ormai da tre anni, realizza questa ricerca – devono oggi possedere i giovani italiani: la prima, infatti, consente loro di tenere il passo rispetto alle esigenze di una società che, sotto la spinta di vari e diversi agenti sociali (i media in primis) viaggia a una velocità sconosciuta a qualsiasi altra epoca. La seconda è strettamente necessaria e funzionale a tale corsa, poiché consente ai giovani di districarsi tra le numerose barriere – politiche, economiche, sociali – che si frappongono sul loro cammino. La terza, infine, rappresenta il perfetto intreccio delle prime due: in ogni corsa a ostacoli che si rispetti, velocità e agilità rischiano infatti di risultare vane, per non dire fini a se stesse se gli ostacoli si superano dopo aver precedentemente indietreggiato al loro cospetto.
Ma chi sono i giovani, oggi? Quali sono le paure e le aspirazioni, i valori e le abitudini di chi oggi rappresenta la generazione di domani? Rispondere a questa domanda non è affatto semplice perché, come ebbe ad affermare Nicola Ferrigni (direttore della ricerca) già in occasione della presentazione del 1° Rapporto, l’universo giovanile italiano si caratterizza per il suo essere incredibilmente “proteiforme”, ovvero «difficile da inquadrare in schemi predefiniti, inafferrabile». Ciononostante, dalla ricerca emergono alcune significative indicazioni che, da una parte, confermano quanto già emerso nelle precedenti edizioni (ed è significativo notare come tale conferma coincida con un allargamento sensibile del campione, quadruplicato rispetto alla precedente edizione), dall’altra parte introducono degli interessanti elementi di novità, segnando così il passaggio da quella generazione di «talenti e solisti fuoriclasse» emersa dal 2° Rapporto alla generazione attuale, fatta di «atleti e corridori, quasi inconsapevoli, di una competizione agonistica quotidiana».
È proprio lungo queste due direttrici che, questa mattina, si è sviluppata la presentazione del Rapporto: un momento di incontro e di dialogo tra gli studenti delle scuole secondarie superiori che hanno partecipato alla ricerca (quella “Generazione Proteo” che dà anche il nome al relativo osservatorio, attivo presso la Link Campus University) e le Istituzioni, chiamate oggi più che mai a un rapporto di fattiva collaborazione con la società civile. In mezzo a loro l’università, ponte ideale tra la generazione di ieri e quella di domani, nonché passaggio obbligato, a detta dei giovani intervistati, per acquisire le competenze necessarie per garantirsi un lavoro stabile, gratificante e quanto più possibile rispondente alle proprie aspirazioni.
Scuola vs/con le Istituzioni, dunque. Dal primo ambito, rappresentato dalla professoressa Monica Nanetti, presidente del Comitato scientifico dell’Osservatorio Generazione Proteo, è venuto un preciso richiamo affinché il confronto tra scuola e università sia sempre meno episodico ed occasionale: è infatti necessario che i discorsi sui giovani siano il secondo step di un percorso la cui prima tappa consiste nell’ascolto degli stessi giovani, e rispetto a tale auspicio è fondamentale il coinvolgimento delle Istituzioni. Una risposta importante alle suggestioni formulate dalla prof.ssa Nanetti è venuta dal Sindaco di Roma Ignazio Marino. «I giovani devono prendersi la vita e seguire con la vita l’evoluzione del proprio pensiero», ha affermato il Sindaco in apertura del suo intervento, ricordando come le idee che ci formiamo in gioventù non sempre si mantengono inalterate nel corso degli anni, bensì crescono, si evolvono, talvolta mutano in funzione del contesto sociale e culturale in cui si declina la nostra vita. Nel corso di tale evoluzione, ha concluso il Sindaco, i giovani non devono tuttavia mai perdere di vista i valori della passione e del rispetto: valori fondamentali, a suo avviso, per la piena realizzazione di ogni individuo e nel contempo della società.
Gli interventi istituzionali sono stati seguiti da un intenso confronto, coordinato dalla giornalista Sky Giulia Mizzoni, sui temi dei valori e della religione, della politica e del lavoro, della sicurezza e dell’immigrazione, infine dei social media. Tra gli altri interventi, quelli di Carlo Maria Medaglia («La forza della normalità, della trasparenza, della serietà contribuisce a rimettere in moto l’energia che contraddistingue i nostri giovani»), Romano Benini («Oggi il riferimento, il modello dei giovani è Steve Jobs: è interessante ricordare che il riferimento di Jobs era Leonardo Da Vinci»), Don Emil («Sono i valori che determinano il nostro io»), Arturo Di Corinto («La sfiducia dei giovani nel futuro è dovuta alla sfiducia degli amministratori del passato»), Maurizio Zandri («Ai giovani servono competenza e organizzazione, studio e preparazione per affrontare il futuro che essi sognano»), Francesco Soro («I social network espongono al rischio isolamento, ma i rischi devono riconoscerli i ragazzi»), Marica Spalletta («I media sono nel contempo innovazione tecnologica e rivoluzione culturale. Per i giovani rappresentano  un’opportunità e non un rischio solo in presenza di un loro uso responsabile»), Pierluigi Matera («Il mondo è di voi giovani: siate come siete, noi ci adegueremo»).
Quelli appena richiamati sono, naturalmente, solo alcuni dei tanti e significativi spunti di riflessione emersi nell’arco di questa mattinata, e molti di loro ben si prestano a essere ulteriormente approfonditi. Tuttavia, c’è un passaggio che ci piace richiamare in conclusione, e che vuole essere anche un auspicio per il futuro. Riprendendo la metafora sportiva con cui abbiamo iniziato questa nostra breve sintesi, la storia dello sport ci insegna che normalmente si diventa fuoriclasse quando si gareggia con successo in discipline particolarmente simboliche. Tuttavia, si può diventare fuoriclasse anche in specialità agonistiche diverse dalla velocità pura: se così non fosse, nel libro d’oro dell’atletica non figurerebbero i nomi di atleti quali l’astista Sergei Bubka, il lanciatore Al Oerter o, per l’appunto, l’ostacolista Edwin Moses.
Tutto questo a patto di avere la possibilità di scoprire prima e mettere a frutto poi il proprio talento, di «realizzarsi e autorealizzarsi», come ha rimarcato Ferrigni durante la presentazione. Perché ciò avvenga, è necessario che i vari e diversi talenti non vengano seppelliti, nella paura di andare persi, o peggio ancora indirizzati verso un’omologazione che soffoca le eccellenze. Al contrario ciò che serve è un investimento – certamente economico, ma prima ancora sociale e culturale – sulle giovani generazioni, per comprenderne desideri e aspettative, paure e preoccupazioni. Questo investimento, ha affermato Vincenzo Scotti, presidente della Link Campus University nel suo saluto introduttivo, è funzionale e indispensabile a orientare quelle riforme finalizzate a porre i giovani nelle condizioni di affrontare le sfide del grande cambiamento che sta avvenendo a livello globale. «Le riforme sono per le generazioni future, ma bisogna conoscere queste generazioni prima di avviare il percorso di riforma», ha concluso Scotti, rimarcando come il contributo dell’Osservatorio Generazione Proteo sia tanto più importante poiché esso rappresenta «un’occasione permanente di discussione sui temi ufficiali». Appuntamento dunque al prossimo anno, per scoprire se gli ostacoli saranno venuti meno, oppure se essi si saranno trasformati in siepi ancor più difficili da valicare.