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mercoledì 20 maggio 2015

Xenofobia e conflitti nel Sudafrica del post-apartheid

                                                                                                                 "We, the People of South Africa,
declare for all our country and the world to know:
that South Africa belongs to all who live in it"
Freedom Charter, 1955.

Lo scorso 14 aprile, la polizia sudafricana ha tratto un bilancio di sette morti a seguito della recente esplosione di violenza xenofoba che ha raggiunto il centro di Durban, mettendolo a ferro e a fuoco. Se questa città portuale del KwaZulu-Natal conta il numero di vittime più alto (ben cinque), nella stessa regione non è stata risparmiata neanche Pietermaritzburg, mentre Umlazi, KwaMashu e Isipingo sono stati teatro di attacchi particolarmente virulenti. La dinamica è ovunque la stessa: nella miseria delle township i migranti sono cacciati dalle loro abitazioni, le loro piccole attività commerciali saccheggiate e date alle fiamme. Le stime dei danni sono approssimative e gli sfollati si contano nell’ordine delle centinaia. Nessun dato è disponibile sugli stupri che pure si sono verificati.
Pochi giorni prima che la furia si scatenasse, Goodwill Zwelithini, che detiene la carica onorifica di re zulu, aveva pubblicamente richiesto ai migranti di abbandonare il paese. A fargli da eco era stata un’esternazione del tutto simile di Edward Zuma (figlio del presidente) che, senza indietreggiare, ha rincarato la dose quando ancora i disordini non erano del tutto cessati, dichiarando: «non smetterò di dire la verità […] Questa gente deve tornare alle proprie comunità» (City Press, 14/04/2015: http://www.citypress.co.za/news/foreigners-do-as-they-please-in-sa-edward-zuma/).
Ma chi è questa “gente” che dovrebbe tornare da dove viene? Sono africani neri e sono poveri come i perpetratori materiali delle violenze. Ma, a differenza di questi ultimi, sono amakwerekwere: quelli che parlano una lingua incomprensibile ­– i barbari, se volessimo trovare un’analogia con l’etimologia di questa parola italiana.
Gli amakwerekwere incarnano tutti i mali delle township e, come capri espiatori, su di loro ricade la colpa della disoccupazione dilagante, dei salari da fame, della mancanza cronica di abitazioni, della criminalità diffusa, delle violenze sessuali, del propagarsi dell’HIV.
Ma gli amakwerekwere non sono tutti uguali. Secondo una graduatoria dell’indesiderabilità, gli zimbabwesi e i mozambicani sono peggiori dei migranti del Lesotho e dello Swaziland ma comunque migliori dei somali e degli etiopi.
Questa forma di xenofobia si connota per il fatto di contrapporre neri (sudafricani) poveri a neri (africani) poveri, ma soprattutto per il fatto che pare costituire un elemento di discontinuità rispetto al periodo dell’apartheid, quando i migranti erano integrati nelle township, prendendo parte attivamente alle lotte di liberazione, e i perseguitati in fuga dal regime razzista sudafricano erano accolti e sostenuti in altri paesi africani.
Eppure la storia passata di sofferenza e solidarietà non sembra andata del tutto perduta: il 16 aprile centinai di persone dalle township di Durban sono scese in strada per dichiarare il proprio sdegno contro gli attacchi xenofobi, mentre simili manifestazioni hanno avuto luogo anche a Johannesburg.
Nonostante ciò, si può a buon diritto parlare di una violenza xenofoba del post-apartheid; cioè, di una xenofobia che caratterizza la fase apertasi all’inizio degli anni Novanta e che prosegue – in una forma decisamente deteriore – “l’insularità”, quale peculiarità della storia moderna di questo paese: il Sudafrica come eccezione africana, la sua storica diversità che oggi pare tradursi in senso di estraneità rispetto al resto del continente.
In effetti la cruenza dei fatti appena trascorsi non è un unicum. Il post-appartheid è costellato da periodiche azioni di violenza collettiva contro i migranti, come quelle verificatesi solo a gennaio scorso a Soweto (Johannesburg), la più grande township del paese, sino ad arrivare più a ritroso nel tempo al progrom del 1994, noto con il nome di «buyelekhaya» («tornatevene a casa»).
Ma il bilancio più pesante spetta al maggio 2008 con almeno 62 morti, 35 mila sfollati, migliaia di persone in marcia verso le frontiere (26 mila solo quelle che attraversarono i confini con lo Zimbabwe). Nel maggio di sette anni fa tutto ebbe inizio ad Alexandra, township alle porte di Johannesburg, quando una folla fece irruzione in una fabbrica per aggredire i migranti zimbabwesi che vi avevano trovato un’abitazione di fortuna. Rapidamente le violenze si estesero alle altre township di Johannesburg, raggiungendo anche Soweto, ed espandendosi a tutta l’area dell’East Rand. Fu quindi il turno del KwaZulu-Natal e del Mpumalanga sino a che otto delle nove regioni sudafricane furono toccate dalle violenze. La stessa Città del Capo ne fu teatro.
L’esplosione del 2008 coincise con l’impennata dei prezzi dei generi alimentari, che segnò il principio della crisi mondiale. Questa, nel contesto sudafricano, si sommava alle attese frustrate di un nuovo ordine che prometteva, con la fine del regime, non solo di riconoscere i diritti formali ma di ridistribuire le immense ricchezze di un paese in forte crescita. Un crescita gravida di contraddizioni: secondo il Food Security Unit Network dell’Università di Città del Capo, attualmente più di 12 milioni di persone vivono in una situazione di “insicurezza alimentare”; vanno, cioè, a dormire affamati senza avere la certezza di poter soddisfare i proprio bisogni alimentari il giorno seguente. Un dato confermato dalle stime del Department of Agriculture, Forestries and Fisheries, che suona tanto più inquietante se si considera come il Sudafrica si contraddistingua su scala mondiale per le tecnologie agricole all’avanguardia e per il surplus della produzione alimentare. La crescita economica del post-apartheid ha, inoltre, attratto nuovi e più consistenti flussi migratori, con una popolazione migrante attualmente stimata intorno ai 5 milioni, su un numero di abitanti complessivi di circa 54 milioni di persone.
Tuttavia la coincidenza dei due fenomeni ­– sperequazione in contesto di crescita economica e aumento dei flussi migratori internazionali – non è di per sé sufficiente a spiegare odio e violenza contro i migranti. È solo, infatti, grazie ad un elemento ideologico che gli amakwerekwere sono stati trasformati in capri espiatori dei mali delle township.
Al riguardo, Achille Membe ha osservato come a suo avviso la differenza fra i progrom del 2008 e quello dello scorso aprile risiede proprio nell’emergere «dei rudimenti di un’ideologia»; cioè, di un discorso che incita e giustifica i progrom (Africa is A country, 16/04/2015: http://africasacountry.com/achille-mbembe-writes-about-xenophobic-south-africa/).  
In tale ottica il filosofo camerunense interpreta anche le nuove norme del 2014 in materia di immigrazione che apportano modifiche significative all’Immigration Act del 2002. La nuova legislazione sembrerebbe rendere più incerta la situazione dei migranti con permesso di soggiorno, sottoponendoli al rischio permanente di scivolare nell’irregolarità.
A ben vedere, tuttavia, la presenza di un discorso pubblico a carattere marcatamente ideologico sul fenomeno migratorio è già presente in una fase precedente rispetto a quella indicata da Mbembe. Questo pare emergere dall’indagine del Samp (South African Migration Project) che ha monitorato la stampa sudafricana fra il 2002 e il 2004. L’analisi dei dati ha in effetti mostrato come la copertura mediatica del fenomeno migratorio non fornisca adeguata informazione rispetto a un processo tanto complesso quanto diversificato. Ma non solo: la pubblicistica sull’argomento pare configurarsi nel suo insieme come una vera e propria campagna anti-immigrati, per l’insistenza di stereotipi negativi associati a categorie sociali indeterminate e imprecise.
È tuttavia vero che xenofobia e tribalismo sembrano, dalla crisi del 2008 in avanti, aver permeato sempre più in profondità anche il discorso politico. L’intensificarsi dell’uso strumentale del tema migratorio è andato di pari passo con l’emergere di una conflittualità radicale, diretta espressione delle contraddizioni dell’economia sudafricana.
Quello trascorso è stato in tal senso un vero e proprio anno caldo, con ondate di scioperi e manifestazioni che hanno interessato settori economici strategici con rivendicazioni mai così avanzate da parte dei lavoratori. Dal 23 gennaio 2014, dopo il fallimento delle trattative sindacali, hanno avuto inizio 5 mesi continuativi di scioperi per i minatori dell’industria estrattiva del platino.
Ad incrociare le braccia sono stati tra i 70 mila e gli 80 mila minatori che hanno bloccato il 40 per cento della produzione mondiale di platino, in un paese che detiene più dell’80 per cento delle riserve mondiali. Secondo lo Stats SA (Statistics South Africa) la produzione di questo minerale ha registrato, nei mesi dello sciopero, una caduta che non si era mai verificata negli ultimi 47 anni. A giugno i minatori sono riusciti a strappare un aumento salariale di mille rand mensili.
A luglio è stato poi il turno del settore metallurgico e siderurgico, anche in questo caso con richieste di migliori condizioni salariali (12 per cento d’aumento) e eliminazione del caporalato. Lo sciopero nazionale ha riguardato industrie di piccola, media e grande dimensione con più di 220 mila lavoratori coinvolti e forti ripercussioni sull’intera produzione manifatturiera. L’impatto maggiore si è avuto nella regione del Capo Orientale dove risiedono le più grandi industrie del settore, con adesioni significative anche nel Capo Occidentale, nel KwaZulu-Natal e nel Gauteng. Proteste si sono verificate anche alla Eskom, la compagnia elettrica statale, dove sono vietati gli scioperi in quanto fornitrice di “servizi essenziali”.
A guidare gli scioperi e le manifestazioni, che hanno avuto luogo a Johannesburg, Durban, East London, Port Elizabeth e Città del Capo, è stato il Numsa (National Union of Metalworkers of South Africa): il sindacato dei metalmeccanici che nel dicembre del 2013 ha rifiutato di appoggiare, per le elezioni nazionali del maggio successivo, l’African National Congress, partito che è alla guida del paese dalla fine del regime.
La rottura del Numsa (poi espulso nel novembre 2014 dal Cosatu – la maggiore confederazione sindacale, legata all’Anc) rivela la crisi di credibilità dell’Anc un tempo guidato da Mandela.
A motivare questa crisi non sono solo gli scandali legati alla corruzione e l’approfondirsi delle contraddizioni socio-economiche nel post-apartheid. In effetti un vero e proprio spartiacque, che ha contribuito a incrinare il legame fra lavoratori neri e Anc, è la data del 16 agosto 2012, quando la polizia ha sparato su una folla di minatori in sciopero a Marikana, uccidendone 34.
Il massacro di Marikana è il più noto episodio di violenza agita dalla forza pubblica contro civili nel post-apartheid, con un bilancio di morte che non si registrava dal 1960. Ma non è l’unico: va ad esempio ricordata anche l’uccisione di 4 persone a Mothuland il 13 gennaio 2014 durante una manifestazione contro la cronica mancanza d’acqua. Una questione particolarmente grave in tutta la municipalità del Madibeng (A ovest di Pretoria), dovuta allo sfruttamento intensivo delle risorse idriche da parte delle miniere e alla cattiva manutenzione delle reti da parte degli amministratori politici locali.
La violenza contro i migranti si radica dunque nel contesto fortemente dinamico e in trasformazione del post-apartheid, connotato da crescente disuguaglianza, radicalizzazione della conflittualità sociale e crisi di credibilità della classe dirigente. I fatti di metà aprile interrogano, in tal senso, sul futuro della rainbow nation, profetizzata da Desmond Tutu: il post-apartheid manterrà la sua promessa di emancipazione per l’Africa intera o scivolerà nella spirale dell’odio?

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